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Il fascino perturbante dell'essere nessuno: lo scambio dell'identità ne "Il capro espiatorio" di Daphne du Maurier

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Il capro espiatorio
di Daphne du Maurier
Il Saggiatore, 2025

Traduzione di Bruno Oddera

pp. 480
€ 19 (cartaceo)

Mentre uscivo in macchina da Tours, l'ultima mattina, la mia insoddisfazione per le lezioni che avrei dovuto tenere a Londra e la consapevolezza che tutto quanto avevo fatto in vita mia [...] era stato osservare la gente e non prendere mai parte alla felicità o al dolore degli altri, mi diede un senso di sconforto così soffocante, intensificato dalla pioggia che frustava i finestrini della macchina, che quando arrivai a Le Mans, [...] cambiai idea, nella speranza di cambiare anche il mio stato d'animo. (p. 11)

Con Il capro espiatorio (in lingua originale The Scapegoat, 1957), Daphne du Maurier affronta uno dei temi più perturbanti della letteratura: lo scambio di identità. Lo fa a modo suo, con la sua tipica capacità di trasformare l'ordinario in sinistro e il quotidiano in incubo, trascinando il lettore in un universo narrativo dove la realtà vacilla e l'identità individuale si frantuma come uno specchio che cade.

Il protagonista è un professore inglese di nome John, un uomo solitario, senza legami e senza radici, che si trova in vacanza a Parigi, alla deriva, in una vita apatica e insignificante. Il suo incontro con Jean de Gué, un aristocratico francese che gli somiglia in modo inquietante, dà il via a un gioco pericoloso: dopo una notte di bevute e di confessioni, l'inglese si sveglia nella vita dell'altro, letteralmente al posto dell'altro. Da qui ha inizio una narrazione tesa, cupa e distorta che scivola lentamente verso una spirale di ambiguità psicologica. 

Du Maurier è maestra nel costruire atmosfere dense, in cui il paesaggio diventa specchio del nostro io. Tutto sembra presagio di ciò che sta per compiersi, e fin dalle primissime pagine il lettore percepisce quell'atmosfera di disagio e spaesamento, tipica dei romanzi disturbanti. Il castello dei de Gué, freddo, decadente e oppressivo, è il teatro perfetto per mettere in scena questa recita forzata. La campagna francese che lo circonda diventa un territorio sospeso fra realtà e finzione, mentre la famiglia dell'aristocratico (che include una madre imperiosa, una moglie sospettosa e una figlia inquietante) si muove come un coro tragico, portando in scena dinamiche irrisolte, tensioni soffocate e silenzi colmi di rancore. Ognuno dei personaggi principali è a suo modo vittima e carnefice, specchio infranto delle aspettative dell'altro.

Qualcuno mi urtò il gomito, mentre bevevo, e disse: «Je vous demande pardon»; e mentre mi scansavo per fargli posto, si voltò, mi fissò con gli occhi sbarrati e io feci altrettanto e capii, con una strana sensazione mista a meraviglia, a timore, a nausea, che quel viso, quella voce mi erano anche troppo ben noti. Stavo guardando me stesso. (p. 20)

Il romanzo non si limita soltanto a costruire un affascinante gioco identitario. Du Maurier innesta nella trama un perenne senso di incredulità e di dubbio. Un continuo senso di disorientamento morale che spinge il lettore a dubitare di ciò che legge, e soprattutto, di chi racconta. Il narratore è attendibile? È un salvatore involontario o un semplice impostore? La sua voce narrante, infatti, è pervasa da un compiacimento al limite del narcisismo. Una fascinazione sconfinata per la propria "superiorità etica" rispetto al vero Jean de Gué. Questo sospetto instilla un' inquietudine che cresce a ogni pagina, lasciando il lettore impotente dinanzi a un narratore, forse, inaffidabile.

Il romanzo dialoga inevitabilmente con La gemella sbagliata di Ann Morgan (Piemme, 2017), in cui l'intercambiabilità fra identità, qui tra due sorelle gemelle, diventa uno strumento per esplorare il condizionamento sociale, il trauma infantile e la possibilità di riscrivere se stessi. Anche lì, come in Il capro espiatorio, il gesto iniziale (lo scambio) sembra un gioco, quasi una provocazione, ma si trasforma presto in una prigione da cui è difficile uscire. In entrambi i romanzi l'identità non è mai fissa o univoca: è un fragile costrutto sociale e psichico che può essere rubato e distorto, anche con il nostro inconsapevole consenso.

Du Maurier, però, ci spinge ancora oltre: ci costringe a chiederci cosa significhi davvero essere qualcuno. Il protagonista si confronta con l'orribile possibilità che nessuno, nemmeno lui stesso, sia del tutto autentico. In questo senso, Il capro espiatorio, è un romanzo profondamente esistenziale, che affonda le sue radici nel disagio dell'individuo moderno, alienato e incapace di trovare una propria identità.

Una nota di merito va anche all'ottimo lavoro svolto da Il Saggiatore, che ha dato nuova vita a questo romanzo con l'accurata traduzione di Bruno Oddera, che restituisce con efficacia la complessità stilistica e psicologica dell'autrice inglese. La casa editrice si conferma ancora una volta impegnata in un prezioso lavoro di recupero editoriale, riportando sugli scaffali delle librerie autori e autrici che meritano di essere nuovamente riscoperti, anche dai lettori più giovani. È il caso di Una storia ingarbugliata di Lewis Carroll, o di Il processo di Franz Fakfa, altri esempi di riscoperta raffinata, in linea con questo riuscito e ambizioso progetto editoriale.

Attraversai la terrazza, passando sotto le finestre chiuse ed entrai nel buio, freddo ingresso. In un certo qual modo, la mia stessa intrusione nel castello ancora addormentato parve spezzare l'incantesimo della pace e del silenzio che vi si annidavano. Provai una sensazione d'inquietudine, di presentimento, come se la casa, al suo risveglio, non potesse destarsi alla limpida, esterna luce del giorno, ma a qualche interna disgrazia, che già aleggiava, guardinga e attenta, nell'ombra delle scale. (p. 326)

Lo stile è preciso, calcolato, quasi come se fosse venato da un'inquietudine sottile che si insinua più nelle ombre che nelle azioni. Du Maurier non ha bisogno di effetti speciali: il suo talento consiste nel far slittare continuamente la realtà fino a renderla annebbiata per colui che la indaga, che si tratti del narratore o che si tratti del lettore. Questo senso di perturbante oppressione non ammette risposte facili: ci lascia come appesi a un cappio, intrappolati come John in un'identità che non ci appartiene del tutto, e che forse non abbiamo mai posseduto.

In questo senso Il capro espiatorio è un romanzo disturbante nell'accezione più autentica del termine: non per i suoi eventi narrati, ma per il terremoto interiore che provoca. Un classico inquieto e ancora attuale, che continua a parlare, con voce ambigua e seducente, al nostro bisogno di riconoscimento e al nostro terrore di essere nessuno.

Carlotta Lini