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"Mia sorella è sparita". "Ventre sepolto", di Aliyeh Ataei, è un libro eccezionale

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Ventre sepolto
di Aliyeh Ataei
Utopia editore, aprile 2024

pp. 208
€18 (cartaceo)
€9,99 (e-book)


Ventre sepolto è un libro illusorio. Su molti piani: quello della trama, quello della voce narrante, quello della temporalità, e anche quello della forma. Infatti, pur essendo diviso in alcuni lunghi capitoli, l’impressione che dà è di essere un flusso narrativo continuo, senza inizio e senza fine: solo un intrico di parole e di personaggi e di visioni che vorticano per una mistica Teheran, un labirinto in cui perdersi e dal quale si esce a malincuore. 

Recente aggiunta al prezioso catalogo di Utopia, Ventre sepolto è originariamente scritto in persiano da Aliyeh Ataei, autrice cresciuta al confine tra Iran e Afghanistan, e arriva in Italia dopo il successo delle traduzioni in inglese e francese. La storia è quella di Mani, un uomo di mezz'età, ingegnere con interessi letterari, alle prese con un divorzio, con l’impossibilità di avere figli, con l’uso di stupefacenti e, soprattutto, con la scomparsa della sorella

«Mia sorella è sparita» sono le prime parole del libro, e poi: «Ho cercato dappertutto, ma non mi do per vinto. Una persona mica si può volatilizzare di punto in bianco, senza lasciare traccia. La troverò» (p. 7) Inizia così l’indagine privata di Mani, deciso a fare luce sulla sofferenza che deve aver spinto la sorella ad allontanarsi, e stranito dall’incomprensione di cui sente di essere vittima nel contesto familiare. Quella di Mani e di sua sorella è infatti una famiglia particolare: morta la madre nel parto, sono stati cresciuti dalla nuova sposa del padre, Malus, alla quale Mani non riesce a perdonare di non essere sua madre biologica. 

Molti altri membri della famiglia si alternano nella narrazione e nella conversazione, ma l’autrice non si preoccupa di introdurli chiaramente al lettore, il quale inizialmente sarà investito da un susseguirsi di nomi e di figure alle quali non riesce a dare un volto, o un ruolo. La voce narrante è infatti quella di Mani e della sua coscienza malata, intorbidita dal dolore e dall’abuso, che non si preoccupa di creare una struttura narrativa ben organizzata in cui il lettore possa orientarsi, ma vaga per le strade di Teheran e nel frattempo parla, a se stesso, alla sorella, agli altri, a noi

«Vorrei chiederle "cosa ne sai tu della nostra nobile origine? Tu che tra mille difficoltà hai lasciato la tua città e ti sei trascinata a Teheran […]. Che ne sai del fatto che un uomo senza radici non è un uomo? E se mai dovesse sembrarlo in questo schifo di città, è solo perché qui tutti sono uguali a tutti, tutti si assomigliano, non c’è da stupirsi!"» (p. 53). 

Incontri allucinati, conversazioni tra parenti e monologhi interiori di Mani si susseguono in una prosa frenetica che non permette di posare il libro. Mano a mano che si procede nella narrazione, diventa sempre più evidente come il tema nucleare sia la questione di genere e di identità che tormenta Mani e sua sorella in quanto gemelli. Infatti, si insinua in lui il sospetto che entrambi non riescano ad avere figli perché il loro sesso non è ben definito, lui non è del tutto maschio come lei non è del tutto femmina. Che poi cos’è un maschio? Cos’è una femmina? Mescolati l’uno nell’altro, e l’uno nell’altro persi, i gemelli hanno sempre un aspetto inquietante e magnetico che fa germogliare le narrazioni. Mani fa della disforia di genere un punto di partenza per riflettere, in un delirio particolarmente lucido e credibile, sulle strutture di genere e di potere che in società come quella iraniana mietono vittime di continuo. 

«Io non ero un uomo. Ero un maschio con degli ormoni femminili e niente seme per garantire un seguito alla famiglia di Rafat. E tu eri una donna che… Che tipo di donna eri? Ingenua e debole? Come dice la loro scienza, noi due siamo il frutto di una mutazione genetica patologica! Lo vedi sorella?» (p. 117) 

La tematica di genere e in particolare la riflessione sul concetto di mascolinità è così esplorata attraverso un personaggio che vive sulla sua pelle – e nel suo ventre – il confine ambiguo tra uomo e donna. «La timidezza non è certo un tratto maschile», riflette Mani, e poi: «Come sono i maschi? Dei lupi affamati e spietati, che attaccano e sbranano?» (p. 90). 
Ataei ha una scrittura ipnotica, di cui non ci si stanca. Di capitolo in capitolo l’indagine avanza, e avanza lo smarrimento e la nebbia mentale di Mani. Sul finale, un colpo di scena si unisce a pagine altamente emotive: rimaniamo così, a libro chiuso, col fiato corto, commossi, affascinati, ansiosi di leggere di più di quest’autrice.


Michela La Grotteria