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Assassinio in Cornovaglia
di Elizabeth George
Longanesi, 2025
Traduzione di A. M. Biavasco
pp. 592
€ 24 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
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In Assassinio in Cornovaglia il paesaggio sembra avere un ruolo quasi attivo: scogliere, isolamento, comunità chiuse. Ha scritto la Cornovaglia come se fosse un personaggio. Che rapporto narrativo cercava con l’atmosfera?
Sì, direi proprio di sì. Per me lo spazio è fondamentale: quando scrivo, la mia aspirazione è sempre quella di far prendere vita a un luogo. Ci lavoro molto, perché desidero che il lettore veda ciò che io ho visto. Quando qualcuno mi dice che l’ambientazione è viva e presente, allora sento di aver fatto un buon lavoro.
Spesso mi capita di vedere un posto in un film o in un documentario e di sentire immediatamente il bisogno di andarci: è successo per esempio con Positano, dopo aver visto un film ambientato lì. I luoghi mi chiamano e io li seguo. E quando li raggiungo, possono diventare materia narrativa.
Nella sua idea di crime novel, quanto conta l’ambiente nel generare tensione morale, prima ancora che investigativa?
Conta moltissimo. Visitare i luoghi in cui poi ambienterò la storia mi offre elementi di trama che non potrei ottenere semplicemente immaginandoli. Nel caso di Assassinio in Cornovaglia, vedere dal vivo la miniera di stagno, la sua struttura e la sua storia, mi ha permesso di integrarla nella narrazione in modo autentico. Senza quella visita, molti dettagli non sarebbero entrati nel romanzo.
Il rapporto tra Lynley e Havers è una costante amatissima dai lettori. In questo romanzo ha cercato di spostarli, destabilizzarli o mostrare nuove sfumature?
Non era un intento deliberato. Ma una volta portata Havers nell’ambiente familiare di Lynley, è stato inevitabile che la dinamica tra loro cambiasse. Per la prima volta lei lo vede non solo come il suo superiore, ma come il figlio di una madre presente, il fratello di una sorella presente. Questa nuova cornice modifica la percezione reciproca e aggiunge complessità alla loro relazione.
Nei suoi romanzi, spesso il delitto è la conseguenza di traumi familiari o sociali profondi. In questo caso quale “ferita originaria” l’ha interessata di più esplorare?
Mi interessava molto lavorare sulla mancanza di lucidità del personaggio. È una condizione comune: molti crimini — soprattutto quelli non premeditati — affondano le radici nel passato, in storie di dolore o disfunzione che non sono mai state elaborate.
Volevo esplorare la distanza tra ciò che un personaggio crede di sé e ciò che realmente è: quella zona in cui l’autoinganno diventa pericoloso, per sé e per gli altri. Il lettore spesso percepisce questa distorsione molto prima del personaggio stesso, e questo crea tensione narrativa.
La Cornovaglia del romanzo è una piccola comunità dove tutti si conoscono, ma poco davvero si dicono. Perché continua a scegliere microcosmi rurali per raccontare colpe così moderne?
Da un punto di vista narrativo, un’ambientazione piccola offre possibilità che una grande città non consente. È vero che alcuni miei romanzi sono ambientati a Londra, ma nei contesti più ridotti posso cogliere meglio ciò che mi interessa: le dinamiche umane, le relazioni implicite, ciò che si condivide e ciò che si tace.
Le piccole comunità funzionano come camere di risonanza: tutti sanno qualcosa, ma non tutti parlano. Questo crea tensione naturale e permette di intrecciare temi contemporanei — anche molto moderni — in un microcosmo apparentemente tradizionale.
Pensa che oggi il crime sia uno dei generi più adatti a discutere di ingiustizie sociali?
Elizabeth George conferma, ancora una volta, che il crime può essere territorio di indagine morale, un luogo dove non esistono luoghi sicuri: né per i personaggi né per chi legge. E forse è proprio questo il cuore della sua narrativa — l’idea che la verità non arrivi come uno schianto, ma come una marea lenta, capace di riscrivere le linee della costa.
Intervista a cura di Samantha Viva
Si ringrazia l’ufficio stampa di Longanesi per l’opportunità e la traduttrice presente a Scrittori in città, Chiara Codecà.

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