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"Il contrabbandiere innamorato e l'acqua della vita" di Jonas Jonasson: il coraggio di scrivere di eroi.

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Il contrabbandiere innamorato e l'acqua della vita
 
di Jonas Jonasson
La nave di Teseo, ottobre 2025 

Traduzione di Stefania Forlani 

pp. 446 
€ 22,00 (cartaceo) 
€ 11,99 (ebook) 

Avete presente la fatica di iniziare una relazione e portarla avanti solo perché non si vuole ammettere che, in fondo, non s'ha da fare? E così si trascinano i giorni, si forza un interesse che non è altro che un naturale quanto flebile senso di curiosità per il prossimo. Ecco, è ciò che ho provato quando ho avuto il mio primo approccio con Jonas Jonasson e il suo nuovo romanzo Il contrabbandiere innamorato e l'acqua della vita

Ci troviamo in Svezia – patria dello scrittore – e il contrabbandiere in questione è Algot Olsson, il quale, rimasto orfano, diventa l'obiettivo principale delle angherie del conte Bielkegren, storica nemesi di Olsson padre. Il ricco nobile, infatti, le tenta tutte pur di infiacchire e provocare l'animo fiero del giovane, che, alla fine, è costretto a cedere la vittoria al conte e abbandonare i campi vicini alla tenuta dei Bielkegren. All'inizio della storia, dunque, Algot è uno sconfitto, il che porta il lettore a empatizzare con lui. Fin dalle prime pagine si sa da che parte stare. Anche quando, nel suo breve peregrinare, il protagonista incontra un tipografo e sua figlia Anna Stina, il lettore ha subito la facoltà di comprendere che faranno parte della schiera di aiutanti dell'eroe protagonista. Una serie di battute, il ritratto di due personaggi fuori dagli schemi, che, sebbene collocati nel XIX secolo, hanno i nostri stessi valori di uguaglianza e parità, sono gli indicatori per comprendere chi sono i buoni e chi i cattivi. Per questo, dal momento che la divisione dei personaggi è così manichea, non credo di fare alcuno spoiler di sorta quando affermo che, ovviamente, il finale sarà lieto per chi fa parte dei buoni. 

Non me ne vogliate, ma è facilmente comprensibile fin dalle prime azioni. Questa è, in fin dei conti, una favola, moderna certo, ma pur sempre una favola e per questo è importante che finisca bene. A Jonasson interessa cosa accade nel mentre. E molto succede ad Algot, Anna Stina e il resto della truppa dei buoni, così come altrettanto accade ai cattivi, rappresentati in breve dai due uomini Bielkegren, padre e figlio. La lotta tra il bene e il male è la tematica principale, che si declina anche e soprattutto in termini politici e sociali: i buoni sono incarnati dal popolo, dagli operai e anche dai borghesi delle prime ore; i cattivi, invece, sono essenzialmente i nobili, coloro sui quali si precisa che non hanno guadagnato il proprio titolo e i privilegi, ma che se li sono ritrovati alla nascita. Chiaro che, all'interno di un'ambientazione rurale come quella della Svezia feudale del 1853, la disparità comporti una certa rabbia, specialmente se i protagonisti meritano molto più di quanto spetti loro in base al ceto. Anche dal punto di vista sociale, la condanna di Jonasson arriva per i ladri, gli egoisti, i veri perfidi disposti a tutto per far stare bene sé stessi, e non per i truffaldini da due soldi. Questi, anzi, fanno anche simpatia. 

«Riesci a immaginare qualcosa di più deprimente che essere un astemio timorato di Dio, in questi tempi?» (p. 276), chiede ironicamente Algot: l'autore vuole fotografare una Svezia del passato problematica e viziosa, ma anche sconfitta dalle prepotenze del potente di turno. In particolare, si pone al centro della storia di Algot e dei suoi amici la licenza per la produzione e la diffusione di acquavite, il male di una Nazione depressa e povera, che si perde nei fumi dell'alcol per dimenticare le disparità sociali e lenire il dolore che ne consegue. Jonasson, però, denuncia i vizi del suo popolo adottando uno stile divertente, molto ironico e brillante, che si adatta bene ad alcuni personaggi, per nulla ad altri. Il conte, così meschino com'è, non ha l'acume per produrre dialoghi sarcastici. Eppure, Jonasson forza ugualmente questo registro che, a questo punto, sembra quasi fare il giro e, anziché assumere vitalità, sembra quasi piatto. Alle disgrazie, però, c'è una fine e così i personaggi positivi del romanzo ricevono ognuno una ricompensa degna delle loro buone azioni. È proprio qui che ho capito cosa non andasse dal mio punto di vista. Non è colpa di Jonasson né della sua scrittura, ma mia. È che vivo nel XXI secolo, leggo e ascolto notizie deprimenti ogni giorno e una semplice storia edificante quasi mi intimidisce. 

La letteratura si è così abituata all'identità dell'antieroe che quando, invece, una storia ha al centro un vero eroe classico ne siamo quasi delusi. In parte perché nella realtà sappiamo che nessuno ha solo lati di luce o solo lati d'ombra, ma anche perché ancora non vogliamo che la letteratura torni a essere un veicolo per sognare più in grande. Forse desideriamo essere ritratti con le nostre fragilità da esseri umani, le disuguaglianze perduranti e il cinismo della vita quotidiana? È così che mi sono spiegata il mio sentimento contrastante verso Il contrabbandiere innamorato e l'acqua della vita, la cui visione favolistica da un lato mi ha confortata, e dall'altro mi ha lasciato insoddisfatta. 

Camilla Elleboro