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"L'educazione fisica" di Rosario Villajos: una storia di turbamenti adolescenziali sul proprio corpo, sull'identità sessuale e sulla (non) fiducia negli adulti

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L’educazione fisica
di Rosario Villajos
Guanda, 2024 

Traduzione di Roberta Arrigoni
 
pp. 272
€ 19 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


Che ne sanno quelli di come ci si sente ad attraversare una distesa deserta in piena notte rinchiusi in un corpo come il mio, pensa a volte, autoassolvendosi. Il resto del tempo lo passa a osservare come si comportano gli altri, invece di provare a capire meglio se stessa, sempre pronta a giustificare chi la tratta male, compreso il tassista che l’ha scaricata in mezzo al niente. (p. 51)
Catalina ha sedici anni, è un’adolescente che, come chiunque alla sua età, cerca di capire il mondo che la circonda al meglio che può, ma soprattutto di capire se stessa, di conoscersi e conoscere il proprio corpo, attorno al quale le sembra che ruoti tutto quanto, come una sorta di forza che governa il mondo, anche se non sa spiegarsi il motivo.
Sola in una strada deserta, Catalina fa l’autostop, non per fuggire di casa, come nelle trame più ribelli di alcuni romanzi di formazione, ma per tornarci, per ritornare nel luogo sicuro della famiglia, per cercare a tutti i costi di tornare in orario, in tempo per la cena e non scatenare così le ire dei genitori.
 
Il libro firmato da Rosario Villajos inizia così e non si sofferma subito sull’origine di queste circostanze, sul motivo per cui Catalina si trova costretta a fare l’autostop, ma qualche indizio ce lo dà e proseguendo la lettura capiamo che ha a che fare con qualcosa di oscuro e deprecabile, di un uomo che approfitta della propria posizione di adulto, di una figura paterna che emana fiducia e invece la trasforma in sporcizia, la usa per macchiare indelebilmente, deresponsabilizzandosi di qualsiasi cosa e denunciando invece l’adolescente di colpevolezza.

Di colpe, un romanzo di questo genere non può che esser pieno. Eppure l’unica colpa che ha una voce è quella della vittima, della protagonista che non può fare a meno di sentirsi sbagliata, di giustificare chiunque altro, in primis gli adulti, che agli occhi di una ragazzina non sono ammissibili di colpa, perché sono loro a sapere dove sta la verità.

[…] perché fare cose con un’altra famiglia sarebbe stato interpretato come un tradimento della propria. Come si permette, dopo tutto quello che hanno fatto per lei. Perciò si punisce appena può infilandosi in vicoli bui prima di rientrare in casa o facendo l’autostop, per espiare la colpa del risentimento che prova verso la sua famiglia. (p. 105)

È questa circostanza, la fuga dall’abitazione dell’amica, da una famiglia in cui si è sentita sinceramente accolta e accudita  prima dell’orrore e dell’infangamento che scatena la narrazione tumultuosa e concitata di Catalina, un susseguirsi intimo di memorie e considerazioni su cosa vuol dire possedere un corpo, ma soprattutto sul domandarsi chi è davvero che possiede quel corpo. A lei non sembra suo, ma di qualcun altro. Impara che con il corpo può provocare anche senza averne l’intenzione, che gli altri possono farci un po’ ciò che vogliono e che tutto questo non ha nulla a che vedere con il male assoluto, perché è invece sempre giustificabile.

Catalina osserva i comportamenti altrui, degli adolescenti ma in particolar modo degli adulti, di coloro da cui si dovrebbe prendere esempio e che sono lì per dare delle risposte, per aiutarla a comprendere cosa accade dentro e intorno a lei, cosa significa che un corpo cambia. Scruta gli adulti e ne vede le palesi ipocrisie, le contraddizioni: il padre che sembra avere paura del suo corpo di neo-donna, che la vuole vicina ma a distanza, che invece di rivolgersi a lei direttamente fa il passaparola attraverso la madre; e quest’ultima che per proteggere il corpo della figlia non sa fare altro se non cercare di reprimerlo, di non farlo crescere, di imbavagliarlo dentro a una panciera stretta, di strofinarlo con forza come fosse una bruttura da cancellare.

Così Catalina percepisce il pericolo che il suo corpo può richiamare pur non volendolo. Di sessualità non sa nulla, di corpi nemmeno. Le sue sono scoperte randomiche e aleatorie, più nel male che nel bene.
Ogni due sabati accompagnava la mamma dal parrucchiere […] Sfogliava le stesse riviste scandalistiche con le quali ingannavano l’attesa le clienti. […] In mancanza della ginnastica a scuola, quelle foto di corpi di donne che le si impressero istantaneamente nella retina rappresentarono per lei le prime lezioni di Educazione fisica. (p. 150)

La narrazione di Rosario Villajos è perfetta nel farci comprendere la crudezza del viaggio di una protagonista che pur nelle difficoltà resta un emblema di coraggio e lucidità; e, malgrado l’assenza di una qualsiasi guida, reagisce con forza alle esperienze che la percorrono e che non sono soltanto di enorme portata, ma che hanno il potere d’influenzare e ledere l’impianto strutturale della personalità.

Con una scrittura veloce e insinuante, l’autrice ci catapulta nel caos di cui il mondo adolescenziale è sempre costituito, a prescindere dalle circostanze. Ma quando alla fine di tutto c’è soltanto un bieco malessere e la ricerca apparentemente vana della libertà e di qualcuno di cui potersi semplicemente fidare, allora il buio inghiotte senza pietà.

Villajos ha scritto un libro convincente e attuale (sempre malauguratamente attuale), che riesce con efficacia nell’intento auspicato dall’autrice stessa: riuscire, leggendo, a riconnetterci con l’adolescente che siamo state/i, tornare a dialogarvi e risentirci tali, provando a rivivere le emozioni conturbanti e minacciose che a quell’età appaiono insormontabili, ma che ci rendiamo conto non essere troppo lontane neppure dalle fragilità di adesso.

Federica Cracchiolo