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La giornata di (stra)ordinaria quotidianità di un palestinese undici anni prima dei fatti del 7 ottobre 2023 nel romanzo-testimonianza di Nathan Thrall “Un giorno nella vita di Abed Salama”

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Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme
di Nathan Thrall 
Neri Pozza, 9 aprile 2024

Traduzione di Christian Pastore
pp. 256
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (eBook)

Ai tempi, da quando era stato eretto il muro di separazione, la maggior parte delle vittime della regione di Gerusalemme-Ramallah era dovuta a incidenti stradali. Nel settore di Saar si verificavano brutti incidenti e c’erano vittime tutte le settimane. Ma fin da subito Saar si accorse che quello di Jaba era qualcosa di estremo, lo capì da come era devastato il luogo dell’incidente, dall’angoscia della folla, dall’orrore che provò nel vedere quegli zainetti sulla strada. (p. 142)

Il 16 febbraio del 2012, nei pressi di Gerusalemme, avviene un terribile incidente in cui muoiono otto bambini palestinesi: uno scuolabus che portava la scolaresca di un asilo al parco di Ramallah viene travolto da un camion e nell’impatto si ribalta e prende fuoco. Nell’incidente almeno trenta persone, tra bambini e insegnanti, rimangono gravemente ferite e vengono trasportate in diversi ospedali israeliani. Alcuni cadaveri sono praticamente carbonizzati e i genitori - solo quelli in possesso della licenza di entrare nelle diverse aree controllate da Israele - devono aspettare i risultati del test del DNA per l’identificazione.

No, non è una tragedia inventata, non è neppure romanzata, basti dare un’occhiata alle fonti nelle pagine finali per rendersi conto che, a parte quattro nomi inventati per coprire l’identità delle persone che partecipano a una parte della storia, il romanzo di Nathan Thrall, giornalista freelance esperto di Medio Oriente, si basa su fatti reali e parla di persone reali che gli hanno confidato la loro storia, in primis Abed Salama, protagonista dei fatti principali e genitore di Milad, uno dei bambini che erano sullo scuolabus. La tragedia stradale, avvenuta sulla Jaba Road - si precisa che nel libro sono presenti diverse piantine di Gerusalemme e dintorni - è solo il pretesto, un evento dalla triste quotidianità, che il giornalista, profondo conoscitore della città santa, sua seconda patria, utilizza per aprire uno squarcio sulle condizioni dei palestinesi dalla nascita dello Stato ebraico al 2012. 

L’opera è stata pubblicata a New York qualche giorno prima del terribile attentato rivendicato da Hamas il 7 ottobre del 2023, in cui morirono più di mille israeliani tra civili e militari e 250 persone vennero fatte ostaggio dai militanti terroristi: come tristemente sappiamo, quell’episodio riprovevole ha scatenato un’aggressiva risposta da parte del governo di Netanyahu che ha causato una tragedia di civili, soprattutto di bambini, trenta volte più grande. Si poteva evitare il 7 ottobre? Lungi dal deragliare verso binari geopolitici e tenendo fermamente presente che Hamas è sempre stata una piaga nel cuore della Palestina, il suo male principale, non si può non rimanere indignati leggendo pagine e pagine che documentano l’apartheid delle popolazioni arabo-palestinesi. 

Dopo poco più di un anno dalla scarcerazione di Hadi, un rapporto delle Nazioni Unite rilevò che circa settecentomila palestinesi erano stati arrestati dall’inizio dell’occupazione, il che corrispondeva a circa il quaranta percento di tutti gli uomini e ragazzi presenti sul territorio. Il danno non riguardava solo le famiglie direttamente colpite, ognuna delle quali piangeva gli anni perduti e le infanzie negate. Riguardava l’intera società, ogni madre, padre, tutti i nonni, tutti coloro che sapevano o avrebbero scoperto prima o poi di non poter proteggere i propri figli. (pp. 118-119)

Il libro di Nathan Thrall nasce dall’esigenza di raccontare, attraverso la vita di Abed Salama, le vite dei genitori, dei funzionari, degli impiegati, delle famiglie con e senza cittadinanza israeliana, gli arabi-israeliani cioè quegli arabi che erano rimasti a Gerusalemme alla nascita dello Stato di Israele e si erano integrati nel tessuto sociale e lavorativo e quelli che non avevano nessun documento di accesso alla città e vivevano al di là di quel muro alto dieci metri che separa gli ebrei evoluti dai rozzi arabi. Il particolare dell’incidente dello scuolabus apre un ventaglio di percorsi narrativi che coinvolgono diversi personaggi, reali e viventi, di cui verranno raccontante le storie che confluiranno tutte nel tragico episodio di Jaba Road.

Il libro si innesta su una struttura classica ben definita: un prologo, che presenta la mattina della gita del bambino e la notizia di uno scuolabus ribaltato e in fiamme, cinque parti in cui compaiono altri personaggi legati per diverse vie all’episodio dell’incidente e l’ epilogo finale. L’inserimento successivo delle storie di ciascun personaggio implica la presenza di flashback e quindi l’interruzione della narrazione dei soccorsi e della ricerca del piccolo Milad da parte di Abed. 

Il lettore ansioso di conoscere se il figlio più piccolo di Abed, di cui nel prologo si era appresa l’ansia e la gioia della prima gita, si sia salvato oppure no deve armarsi di pazienza, perché scoprirà che l’anacoluto narrativo, questa lunga pausa inframmezzata alla mattina dell’incidente e la definizione finale del bilancio delle vittime, contiene in realtà la sostanza più densa e importante del libro. Senza le storie di Abed Salama e della sua famiglia, del suo amore infelice per Ghazl, dei suoi frettolosi matrimoni ora per trovare la felicità coniugale ora per accedere più facilmente a Gerusalemme sposando una insider, non avremmo potuto conoscere la realtà socio-economica dei palestinesi, della condizione di una donna araba che non lavora e dipende dal marito, ne accetta le scelte anche dolorose. Senza la storia dell’endocrinologa Huda Dahbour, capo di un ambulatorio mobile dell’UNRWA , «l’organizzazione delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi» (p. 87) mossasi per estrarre i corpi dei bambini e degli insegnanti dal rogo dello scuolabus, non conosceremmo da vicino una donna forte, coraggiosa, dalla vita rocambolesca, la cui famiglia ha vissuto sulla propria pelle la Nakba, l’espulsione in massa dei palestinesi in vista della fondazione di Israele nel 1947 e lo Yom Kippur, quando «otto F-15 israeliani sorvolarono l’area e sganciarono sulla struttura [il quartiere generale dell’OLP dove in quel momento erano riuniti Arafat e altri leader dell’organizzazione] bombe MK-82 e MK-84, facendola a pezzi» (p. 102). Era l’autunno del 1985, Huda aveva solo venticinque anni e aveva visto orrore e dolore inimmaginabili. Adesso a Jaba Road, circondata dalle urla e dall’odore di carne umana bruciata, le sembra di rivivere il traumatico passato:

Via via che si spostavano verso la parte anteriore dell’autobus, dove le fiamme bruciavano più alte, le condizioni dei bambini erano sempre più spaventose. Alcuni, carbonizzati dalla testa ai piedi, vennero sistemati sulla strada a faccia in su, le ginocchia piegate contro il petto. Se Salem non avesse saputo per certo che si trattava di esseri umani, non li avrebbe riconosciuti come tali. Una bambina che era nera dappertutto l’avevano messa insieme ai bambini morti, ma un’infermiera che lavorava con Huda si accorse a un tratto che respirava ancora. […] Il puzzo dei capelli e della carne bruciata era asfissiante . Huda aveva letto da qualche parte  che fra i vari sensi, quello più legato alla memoria era l’ olfatto. Forse per questo starsene lì, in mezzo alla carneficina, la riportò al giorno peggiore della sua vita. (pp. 93-94)

Huda, il paramedico Nader Morrar, il soccorritore Salem, che dal giorno dell’incidente finisce in una clinica psichiatrica, Dubi Weissenstern e i suoi collaboratori haredi ultraortodossi, il cui compito è quello di onorare i morti «seppellendo la persona intatta, così come era dalla nascita» (p. 137), Ula Joulani, insegnante alla scuola di Nour al-Houda, Haifa giovane moglie di Abed e madre del piccolo Milad e altri personaggi che si incontrano sul luogo della tragedia e negli ospedali arricchiscono il racconto del libro di Thrall e sono pretesto per ricordare i terribili episodi di violenza che da quasi un secolo tormentano quell’area del Medio Oriente postasi, negli ultimi sette mesi, sotto i fari dei media mondiali. Sharon, Arafat, Rabin compaiono sullo sfondo di tragiche storie, insieme alle frasi di Ben Gurion, fiero sionista e fondatore di Israele:

«I nostri diritti in Palestina non derivano dal Mandato britannico e dalla Dichiarazione Balfour. Sono antecedenti» dichiarò Ben Gurion davanti a una commissione reale britannica. «A nome degli ebrei dico che il nostro mandato è la Bibbia». (p. 157)

Un testo sacro, dunque, non una costituzione e ciò mette in discussione la laicità di un tale Stato democratico ed evoluto che vanta di accostarsi a quelli occidentali, dove anche le monarchie si basano su uno statuto e un codice di leggi completamente sganciati da ogni implicazione religiosa. Senza contare, poi, che la parola religione etimologicamente richiama il concetto di “legare e unire” i popoli e questo valore andrebbe rivisto in ogni luogo del mondo dove si combattono guerre cosiddette di “religione”, ma che nascondono ben altri interessi. 

Leggendo il libro di Thrall, che in realtà è il frutto di un lungo lavoro di sistemazione di interviste (condotte in prima persona) ai protagonisti dei diversi capitoletti, si entra direttamente nei panni di comuni palestinesi, si tocca con mano la complessità dei rapporti con gli israeliani, improntati in qualche modo sempre su una presunta superiorità di questi ultimi. 

Ciò che di più ho apprezzato nel libro, che non ho trovato in altri che ho letto di recente, è la totale assenza di retorica e di sentimentalismo, percorsi facili diretti a colpire una tipologia di lettori abbastanza vasta: Un giorno nella vita di Abed Salama è un romanzo che racconta i fatti così come sono stati vissuti dai diretti interessati senza indulgere in particolari strappalacrime, perché il dolore non ha sempre bisogno di urlare. Il compito dello scrittore è stato quello di consegnare al vasto pubblico la testimonianza di una tragedia che ricorda tutte le tragedie che si ripetono all’infinito dal 1947, dal giorno della Nakba. Al lettore quello di trarre le sue conclusioni soprattutto dopo aver letto l’epilogo.

Marianna Inserra