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Un viaggio nel mondo di sotto con Paolo Rumiz, "Una voce dal profondo"

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Una voce dal Profondo
di Paolo Rumiz
Feltrinelli, 2023

pp. 281
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Partire con Paolo Rumiz per uno dei suoi viaggi presuppone avere con sé una valigia vuota. Non tanto fisica, ma metaforica. Perché sicuramente la riempirete delle tante notizie, curiosità, aneddoti, riflessioni e immagini con cui lo scrittore triestino forgia i suoi libri.

E il termine "forgia" non l'ho scelto a caso. In quest'ultimo reportage, Una voce dal Profondo, Rumiz, a guisa di Efesto, utilizzando il magma della materia vulcanica, che si trasfonde in calore letterario, plasma e modella, pagina dopo pagina, un viaggio che porta il lettore direttamente agli Inferi. Per poi risalire a veder le stelle. La voce del profondo che, da figlio della terra carsica Rumiz conosce bene, l'ha chiamato e si è congiunta all'etica del viandante, alla natura del viaggiatore, alla curiosità del giornalista, all'empatia del divulgatore.

L'assunto che dà vita al libro è sentire la voce della Terra, ascoltare i suoni che provengono dall'interno, farsi consapevoli che viviamo sulla parte più esterna di un mondo in perenne movimento e che tendenzialmente ignoriamo. O tendiamo a ignorare finché uno scossone non ci fa improvvisamente ricordare che passeggiamo sulla schiena di un drago. Vulcani, crateri, grotte, terremoti, squarci, faglie, necropoli, miniere, cunicoli, canali, voragini, valli, fratture, varchi: leggere questo libro vuol dire addentrarsi nel mondo di Sotto.

Ero figlio di una terra che trema. Le appartenevo e volevo vederci dentro. Entrarci, con la lampada di Aladino. (p. 23)

Entrare dentro, sotto, implica venire a patti con un mondo diverso, regolato da movimenti di ere, che, si fanno un baffo della nostra misera scansione in anni. Le faglie che sotto si muovono si dicono attive se mostrano tracce di scorrimento tra i due blocchi negli ultimi 40mila anni, un battito di ciglia nella storia geologica, un periodo talmente breve che lascia presupporre che un terremoto potrebbe ancora verificarsi. Per questo si dicono attive. Va da sé che la vita di un essere umano, per quanto longevo, per la geologia è totalmente irrilevante.

Rumiz inizia questo viaggio agli antipodi rispetto alla sua Trieste: si parte da Alicudi, l'isola più lontana delle Eolie, un punto in mezzo al mare dove la notte sembra di dormire aggrappati a uno scoglio vagante nel Mediterraneo.

La voce del vulcano spento già mi proponeva una discesa speleologica verso il vero, ultimo limite. L'Inconscio. Ma intanto era importante entrare nel regno del Minotauro con un buon filo d'Arianna, e quel filo era indubbiamente l'onda sismica che percorreva l'Italia dalla Sicilia alle Alpi. (p. 20)

E così si parte per un viaggio che ci porta nella Sicilia di Pantelleria, Selinunte, Gibellina (con il suo Cretto, opera artistica che sta al posto dell'antico paese raso al suolo da un terremoto), Ragusa e Catania, titolare del secondo vulcano più attivo d'Europa, il più alto, e, negli ultimi dieci anni, in attività pressoché costante. Nella Calabria grecanica dove i segni lontani della Magna Grecia sono più profondi che mai, dove la forma per dare ordine all'universo è, per lo più, quella della tragedia greca, per l'appunto. Dove i segni di una terra che balla e che ti ricorda che sei poco più di niente si vedono anche nella toponomastica e nei cognomi delle genti che abitano queste terre bellissime e aspre. Il viaggio prosegue nella Basilicata delle pietre di Matera, nell'Irpinia appenninica, si ferma a Napoli che possiede nel suo panorama il vulcano più famoso del mondo la cui eruzione del 79 d.C. determinò la scomparsa di Pompei e di Ercolano. E proprio Napoli, a cui è dedicata una parte corposa del libro, diventa il centro ideale del viaggio di Rumiz. La città dove tutto è poroso, dove il rapporto tra sopra e sotto è diretto (andate al Cimitero delle Fontanelle, per capire di che cosa si sta parlando), dove le case si aggrappano al vulcano, fonte di vita ma che in un lampo potrebbe diventare causa di morte, dove chi abita ai Campi Flegrei è abituato a "ballare" e a fare esercitazioni di Protezione Civile (e per fortuna che l'Ingv, l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ha in parte smentito e molto smorzato il recente documentario trasmesso da un tv svizzera che dipinge una catastrofe nei prossimi anni). Come racconta un napoletano incontrato casualmente in una libreria

"Non c'è nessun confine tra i vivi e i morti. Ai morti qui ci si parla, i morti ti suggeriscono i numeri del Lotto. Con i morti si condividono dolori e gioie. Quando vincemmo lo scudetto con Maradona, forse se lo ricorda, qualcuno scrisse CHE COSA VI SIETE PERSI! sul muro di cinta del cimitero. Era impensabile lasciarli fuori dalla festa..."

Una festa replicata l'anno scorso per i vivi, che quando segna il Napoli fanno oscillare i sismografi, e per i defunti, che quel vibrare proveniente dallo stadio sentono nelle viscere della terra. E dopo l'Irpinia si risale, lungo la spina dorsale della nostra Italia, lungo l'Appennino, costituito da monti inquieti e scostanti, allergici all'invasione dei turisti, decisi a preservare le proprie bellezze nascoste. E se il terremoto è la linea che forma il viaggio, non ci si può non fermare a L'Aquila. Una città dove, forse per la prima volta, il terremoto ha distrutto la socialità, l'anima della città stessa. Se in tanti luoghi, tartassati dai terremoti, il primo imperativo è quello di non abbandonare il proprio posto, le proprie radici (poi ci sono tanti modi per farlo, da quello iper-proattivo dei friulani che dopo lo scossone del 1976 hanno ricostruito tutto nei dettagli, utilizzando le stesse pietre cadute, a quello più fatalista dei siciliani che, in attesa degli aiuti, hanno vissuto decine di anni nelle baracche dopo il terremoto del Belice, contingenze diverse e diversi problemi), qui a L'Aquila i cittadini sono stati costretti a lasciare tutta la propria vita all'interno di una zona rossa che, pur con varie riperimetrazioni, dal 2009 dura tuttora. L'Aquila, capitale italiana della Cultura 2026. Un viaggio che poi sale fino alla fintamente quieta Pianura Padana (vedi scossone del 2012) e si conclude a casa. Nel Carso dove la voce antica della Terra si fa sentire, e vedere, da secoli.

La mia terra è un sismografo di pietra. Sta in alto a destra della mappa d'Italia, e si chiama Carso. E' un sensibile, cavernoso promontorio affacciato sul mare. Nel suo ventre, una grotta alta come la basilica di San Pietro, misura con un lunghissimo pendolo le maree terrestri, mentre intorno mille strumentazioni registrano ogni tremito del mondo. (p.273)

Il libro è il risultato di viaggi diversi, fatti dal 2009 al 2023, a partire da quello che l'autore chiama il "viaggio sismico", compiuto dopo il terremoto de L'Aquila e dal cammino a piedi compiuto, dopo il sisma che devastò Amatrice nel 2016, sulla linea di faglia appenninica. Un viaggio inaugurato, la prima notte, da una "botta" di 3.2 Richter che fece uscire dalle tende Rumiz e i compagni di viaggio. E dormire sulla terra fa sentire la voce del Profondo fin nelle ossa.

Che cosa ci si porta a casa dalla lettura di un libro come questo? Sicuramente una maggiore consapevolezza della nostra fragilità, ma anche una chiara e forte presa d'atto che, se i terremoti non li possiamo governare, certamente possiamo mettere in atto e imparare la cultura del rischio, la necessità di avere case e infrastrutture antisismiche. E poi ci portiamo a casa un grande piacere di lettura perché, come al solito, Rumiz attinge da un vastissimo repertorio di sapere (e di curiosità, che lo spinge a cercare di conoscere ciò che non sa per condividerlo). Vaghiamo per i monti "naviganti", che paiono muoversi, insieme a personaggi mitologici, tornando indietro all'epoca di eventi storici realmente accaduti, parlando con persone del luogo, ricordando leggende e personaggi del passato. Perché riappropriarsi del territorio è fondamentale, soprattutto in alcune parti d'Appennino svuotate dall'emigrazione. E invece quanta vita si respira, o si respirerebbe ancora, in certi paesi semiabbandonati. E la scrittura diventa società, si fa politica intesa come cultura dell'appartenenza, come desiderio di prodigarsi per il bene comune, come necessità di mantenere. E leggendo il libro capiamo così tanto di noi italiani, sparsi in senso verticale per questa striscia di terra che si allunga nel mare e che giace proprio sopra il punto di convergenza di due grandi placche, quella africana a Sud e quella euroasiatica a Nord, con l'Africa che si sposta a Nord e l'Italia che sta ruotando verso Est, chiudendo sempre più il Mare Adriatico. Nessuno di noi sarà qui a vedere quale sarà l'esito di questo processo, ma fare previsioni e dare prospettive scientifiche non è l'obiettivo di questo libro che non vuole fare il verso a un testo scientifico, diventa anzi una lettura condotta tra storia, mitologia, osservazione antropologica e giornalismo. Non è solo un viaggio attraverso l'Italia, ma attraverso gli italiani con il loro carico di miti, di racconti, di religiosità, di senso del sacro, di attaccamento al proprio territorio e alle proprie tradizioni, di nostalgia. E di voglia di portare tutto questo nel futuro.

Sabrina Miglio