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Una spiazzante storia di identità e "brotherhood": "Grande, bro!" di Jenny Jägerfeld

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Grande, bro!
di Jenny Jägerfeld
Iperborea, 2024

Traduzione di Laura Cangemi 

pp. 128
€ 14,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Un’estate a Malmö insieme alla madre, che lavora come doppiatrice di cartoni animati. Il papà rimasto a Stoccolma, impegnato in un'ambiziosa missione ciclistica volta a sensibilizzare la popolazione nazionale e internazionale sul cambiamento climatico. Gli amici, soprattutto il fedele Oliver, lontani per settimane. Le premesse non parrebbero le migliori per il dodicenne Måns. Eppure le attese sono alte, perché Måns vede il trasferimento, seppur temporaneo, come un’occasione per confrontarsi con una nuova pagina, bianca e quindi tutta da scrivere, della propria vita: 

Vidi un cartello con la scritta MALMÖ a lettere nere su sfondo bianco e provai uno strano senso di frizzante aspettativa. Lì nessuno sapeva niente di me. Potevo essere esattamente chi ero. (p. 11)

Fin dalle prime pagine l’autrice dissemina nel testo indizi del malessere del suo protagonista, io narrante della storia: un riferimento a delle prese in giro subite nella città natale, qualche cenno a una tensione irrisolta tra i genitori, il sospetto di motivazioni non dette nell’assenza del padre, l’odio viscerale per la foto nel passaporto, qualcosa che proprio non si vuole dire, non subito, non a chi, come il lettore, ancora non si è guadagnato la fiducia necessari…

Da poco pubblicato nella collana dei Miniborei, rivolti ai lettori più giovani, Grande, bro! affronta un tema inaspettato e importante. Jenny Jägerfeld conferma grande sensibilità nel catturare quel momento delicato di transizione tra l’infanzia e l’adolescenza, il momento in cui il corpo cambia – non sempre come si vorrebbe – e si definiscono i pensieri, mentre matura una prima e non necessariamente facile riflessione sulla propria identità. Per Måns, in realtà, il quadro è chiaro, e da tanto tempo. Lo sa da quando è bambino, da quando ha iniziato a percepire una dapprima sottile, e poi più marcata, dissonanza tra quello che sentiva e quello che gli altri si aspettavano o pretendevano da lui. Quello che non gli è chiaro non è quindi ciò che è, ovvero un maschio preadolescente, ma perché la sua verità sia così difficile da accettare per chi lo circonda.

Perché Måns è un ragazzino, ma sul suo passaporto c’è ancora il nome di Michelle, la foto di una bambina bionda con una molletta imposta dalla nonna e una maglietta con un pony.
La mamma ci ha messo un po’ a capire, poi le orecchie si sono allineate al cuore. Il papà, invece, non ha voluto ascoltare davvero. Il momento del confronto arriva al lettore forte come un pugno, ed è un monito che può aiutare più il lettore adulto che quello adolescente:  
 

Non ero Michi. Non lo ero mai stato. Solo che poi, davanti al papà, mi era venuta la nausea dalla paura. Le parole però le avevo dette. […] Quando avevo finito di far uscire tutto quello che doveva uscire, la nausea sembrava essere venuta a lui. E anche una gran paura. Era rimasto in silenzio. Io avevo il cuore che batteva forte. Prima a mille, pieno di speranza, poi sempre più piano.
La sua faccia, la bocca ridotta a una linea dura. Negli occhi una specie di panico. Non riusciva nemmeno a guardarmi. […]
Come si fa quando qualcuno non risponde?
Come si fa quando un padre non risponde? (pp. 50-51)

Forse anche in virtù di questa resistenza incontrata laddove ci sarebbe stato bisogno di accettazione, di questo punto nevralgico che punge ancora e sempre, per Måns è fondamentale andare a Malmö. Darsi la possibilità di vivere davvero un periodo in cui fare piena esperienza di sé. L’espediente narrativo del trasferimento è il modo in cui Jägerfeld riesce ad affrontare il tema della disforia di genere attaccandolo ai fianchi, attraverso la storia di una grande amicizia.

In un pomeriggio assolato e noioso, in un parco pubblico in cui è stato portato, e controvoglia, dalla babysitter, Måns incontra Mikkel. Bullo dal cuore tenero, ricoperto da capo a piedi di tatuaggi e amante dello skateboard, Mikkel è la rivelazione di un’amicizia che è anche fratellanza, legame di sangue, quello scaturito – letteralmente – in seguito a un brutto scontro con un muretto di cemento. La loro è una brotherhood infarcita di cameratismo, sintonia e passioni condivise. Tra un “bro” e l’altro, competizioni e trovate balzane, Måns finalmente si può riconoscere lontano da giudizi e pregiudizi, può finalmente corrispondere a se stesso («Si vede che sei un vero uomo. […] Tosto. Sincero», p. 46). Per questo per lui non è così fondamentale dire a Mikkel di Michelle, ricordare qualcosa che sente stonato, inattuale: 

Non pensavo di dirlo. Pensavo che magari avrei potuto farne a meno. Dopotutto non c’entra niente. Però ora voglio dirlo lo stesso, perché fa parte della mia storia. (p. 47)

Ma la verità è un gomitolo, un concetto difficile, sfaccettato, uno specchio che si può rompere (e forse rimettere insieme) – ed è proprio intorno a questo nucleo tematico, improvvisamente incandescente, che si articola la trama nella seconda parte del romanzo. L’iniziale rifiuto di Mikkel, lo scontro – intimamente vissuto da Måns – su cosa sia davvero la verità, quella che ci definisce e quella che scegliamo di comunicare, permettono a Jägerfeld di affrontare, questa volta di punta, le paure, il dolore, l’insicurezza, la fragilità, le conseguenze di un simile dissidio, che non è tanto interiore, quando dell’individuo con il mondo esterno nelle sue diverse manifestazioni (famiglia, amicizie, società).

Rivolto per stile e scrittura a un’utenza che si immagina coetanea del protagonista, Grande, bro!, nel contesto italiano, può forse subire un piccolo slittamento a livello di ricezione, verso lettori di poco più grandi, o verso il mondo di genitori ed educatori, a cui può offrire una prospettiva spiazzante e commovente, da interiorizzare e di cui far tesoro.

Carolina Pernigo