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«La sfida al tempo mi interessa solo se ci riguarda tutti»: Yari Selvetella arriva in libreria con un romanzo esistenziale e familiare, "Vite mie"

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Vite mie
di Yari Selvetella
Mondadori, ottobre 2022

pp. 252
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


«Di sei che siamo a casa, nessuno è nato dagli stessi genitori. [...] È complicato raccontarlo ma starci è semplicissimo. Chi lo ha voluto, è qui. Chi, tra parenti e amici, ha preferito non esserci, non c'è. Chi, da fuori, vuole contatti solo con i suoi parenti legittimi, può farlo. Chi ci vuole bene e cerca affetto, è dei nostri» (p. 41)

Una famiglia allargata: è questo che appare con tutta la sua evidenza fin dalle primissime pagine di Vite mie, il nuovo romanzo di Yari Selvetella. Mi ci sono accostata con aspettative altissime, perché il suo Le regole degli amanti (Bompiani, 2020) è certamente tra i titoli che ho consigliato di più negli ultimi due anni. Se mi sono subito ritrovata a casa nel riconoscere uno stile pieno, denso, riflessivo, sotto il profilo della narrazione ho fatto più fatica a muovermi. Perché? Perché Vite mie non vive certo di trama; è invece un romanzo pieno di vite, appunto, e pieno di quotidianità

Siamo di fronte a una quotidianità espansa, che si dilata davanti agli occhi di un narratore e protagonista attento al dettaglio: Claudio Prizio sa bene quanto qualsiasi presente sia figlio di un passato o di tanti passati diversi. Passati che vanno conosciuti e rispettati, perché tanto la sua compagna, Agata, quanto i quattro bambini e ragazzi che vivono sotto il loro stesso tetto hanno vissuto lutti, traumi e momenti difficili. E chi è morto non se ne è davvero andato per sempre: continua a sopravvivere nei piccoli grandi riti quotidiani, negli oggetti che popolano le stanze, oltre che nelle memorie individuali e collettive. E poi c'è la casa, la casa ricevuta in eredità, vicina al Colosseo dove attualmente abitano Claudio e i suoi. Un appartamento che, in una Roma dove vige ancora oggi il "dimmi dove abiti e ti dirò di che classe sociale sei", pare avvicinare la famiglia Prizio a inquilini dal profilo e dal tenore di vita completamente diverso. 

È in questa dimensione di appartenenza e non appartenenza, quotidianità e memoria, aderenza alla propria identità e ricerca di altro che si muove il «presente inceppato» di cui il protagonista «si gode le conseguenze più inattese» (p. 33). Il suo è un vivere riflettendo sulla vita, sulla famiglia, sull'amore, sull'identità, così come lo scrivere di Yari Selvetella non di rado riflette sulla scrittura stessa. Ecco perché Claudio non si limita a raccontare della propria famiglia, ma più volte specula sull'atto stesso di narrarla e sugli scopi sottesi: 

«[...] non mi basta lasciare traccia di me stesso, tanto meno di come mi sento oggi; sarebbe ben poca cosa. Voglio portare con me la mia famiglia, voglio parole per raccontare l'amore che abbiamo costruito insieme e che in questo momento mi sembra di non sapere più maneggiare, ma che pure c'è stato e c'è, grande e importante per tutti noi» (pp. 69-70)

L'andamento ragionativo del testo, d'altra parte, è palese fin dall'incipit, che colpisce e spiazza i lettori: 

Non so più amare, chiedo perdono a tutti. Prima provo a pensarlo, poi a dirlo sottovoce, poi per convincermene aggiungo il pronome: io non so, io non so più amare. Mi accorgo che è vero perché avverto un senso di sollievo, perché ho dato un nome a questo saporaccio e non riesco a incolpare, come faccio di solito, l'unica sigaretta che mi concedo, alla sera, affacciato alla finestra. Anzi mi godo l'ultimo tiro, che pure è il più amaro, in un vero silenzio. Tuttavia non provo a ripetere la frase, perché avrei voglia di alzare la voce e qualcuno qui in casa mi sentirebbe, verrebbe a chiedermi cosa c'è che non va e io risponderei senz'altro che è tutto a posto. Ma non riesco a non pensarci. Perdonatemi, perdonatemi tutti, non è che non ami più, anzi amo molto, è che non sono più in grado. (p. 7) 

Forse da questa citazione appare in tutta evidenza che Yari Selvetella ha scelto per il suo protagonista un percorso non lineare. E il romanzo non può che seguire le stesse circonvoluzioni. Claudio è un uomo che sta bene nel suo presente, ma a tratti rimpiange il passato; ha un lavoro che gli permette di mantenere la famiglia, ma vorrebbe qualcosa in più, sotto il profilo creativo; ha un tetto sopra la testa, ma continua a prendere appuntamenti con agenti immobiliari. E non per fare un investimento, come vorrebbe Agata, ma perché in quelle vite degli altri, in quelle stanze che sono macchiate da altri passati, Claudio pensa di trovare qualcosa di sé. D'altra parte, anche per strada gli sta capitando spesso di ravvisare negli sconosciuti somiglianze inquietanti: i rispecchiamenti sono dietro l'angolo, aprono a fantasie e a riflessioni - che si fanno avviluppanti divagazioni narrative - e la ricerca di un'identità più solida si frammenta in giochi di rifrazione. Illusioni? Giochi della mente? Difficile a dirsi, ma è proprio il narratore a condurci - non proprio per mano - in una dimensione personale e intima, talvolta facilmente condivisibile, altrove più criptica. Le contraddizioni sono all'ordine del giorno, come d'altra parte sono all'ordine della vita. Ecco perché penso che questo romanzo sia profondamente umano: trasuda tanto l'amore di un padre e di un compagno, quanto la paura di non essere in grado di amare davvero. Ed è proprio in questo movimento tra ciò che viene scritto e ciò che invece il lettore deve riconoscere tra le righe che si dipana un romanzo difficilmente riassumibile o raccontabile: gli episodi, più che essere rilevanti in sé, vengono a costituire momenti e quadri in una dimensione ben più ampia e fitta di riflessioni. Ecco perché penso che Vite mie sia un romanzo che vive ora di atmosfere, ora di concatenazioni, ora di libere associazioni, tenendo fisso un protagonista che si aggira per Roma in cerca di chi, forse, non ha ancora capito di essere.

GMGhioni