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Segni particolari: nessun talento. "La linea e l'ombra" di Alfredo Accatino: storia di Erich Kroll, studente del Bauhaus senza qualità

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La linea e l’ombra.
Senza talento nel luogo simbolo del talento: il Bauhaus
di Alfredo Accatino
Giunti, 2022

pp. 235
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Se il protagonista di La linea e l’ombra avesse avuto la ventura di vivere nell’ormai proverbiale futuro predetto da Andy Warhol – vale a dire quello in cui chiunque, a torto o a ragione ma quasi di diritto, avrebbe prima o poi goduto di un quarto d’ora di celebrità – si sarebbe probabilmente dato pace. Peccato che la sorte, anche quella puramente finzionale e letteraria, sappia essere capricciosa quanto un intero pantheon, e che il suo creatore, Alfredo Accatino, abbia scelto per lui uno spazio-tempo di tutt’altra atmosfera, decisamente più esigente e assai meno ecumenica: la Germania degli anni Venti, la città di Dessau, il Bauhaus (nella sua tappa “intermedia” tra Weimar e Berlino). «Gaudio, giubilo, giuggiole e giulebbe!», avrebbero potuto dire a questo punto, esultando di default, i più acritici e fanatici tra i lettori nonché cultori della scuola di design divenuta simbolo del primo Novecento. E invece no, niente di cui bearsi: non solo perché il romanzo pubblicato da Giunti smonta un pezzo dopo l’altro il costrutto mitologico e leggendario dell’istituto che fu creatura di Walter Gropius, riscrivendo in mera prosa una certa vulgata poetica di quanto, tra prologo ed epilogo, accadde al suo interno e nei suoi dintorni, ma soprattutto perché il protagonista di questa storia vi percorre il suo iter di formazione con un handicap che nessuna didattica, nessuna metodologia, nessuna teoria e nessuna pratica avrebbero mai potuto controbilanciare; l’unica lacuna non colmabile, per l’appunto, nemmeno con la frequentazione della più prestigiosa e rivoluzionaria delle accademie. Perché Erich Kroll, giovanotto di vanagloriose speranze quant’altri mai, è privo della sola dote che non si può imparare, non si può inventare, non si può scimmiottare, e che purtroppo è anche l’unica che davvero gli servirebbe nel sancta sanctorum che vuole esserne emblema e fucina: il talento. Un’evidenza, questa, che progressivamente apparirà chiara a chiunque tranne che a lui, minandone l’equilibrio e condizionandone le scelte anche ben oltre la fine degli anni di studio e apprendistato.

A volerlo etichettare, La linea e l’ombra presenta caratteristiche tali da farne un romanzo di formazione con innesti, per così dire, distopici: perché se da una parte seguiamo Erich nel suo percorso di crescita e arriviamo a conoscerne il passato difficile, il presente ostile e il futuro mediocre, dall’altra assistiamo con lui al disfacimento di tutte quelle illusioni che avevano promesso nuovi inizi e nuove redenzioni e si sono rivelate essere l’esatto e spietato contrario. Il Bauhaus, punto di arrivo e di partenza più ambito, non è affatto quell’Eden di parità e possibilità che il protagonista aveva creduto e immaginato: è, esattamente come il mondo che sta al di fuori dalle sue mura – quello stesso mondo che ne determinerà la chiusura e la fine nel 1933 – un altro microcosmo in cui vige la legge tanto naturale quanto culturale della competizione, in cui il più forte (che significa il più bravo e il più dotato, ma anche semplicemente il protetto e il prescelto) vince sul più debole; una scuola che nel suo statuto rivendica l’uguaglianza tra i sessi e garantisce una chance per chiunque, e in cui invece, manco a farlo apposta, non solo i traguardi sono esclusivi e si tagliano da soli, ma gli uomini hanno la sicurezza di fare cose da maschi e le donne la condanna di fare cose da femmine (eccole, difatti, dirottate quasi in toto nei corsi di tessitura, eterne Penelopi che fanno e disfano la tela dell’emancipazione e che, una volta accasate, continuano a firmare con il cognome del marito). E che dire, poi, del corpo docente, di quelle creature eccezionali e magnificate nell’idealizzazione privata e che inevitabilmente si rivelano non esenti da difetti, bassezze e piccinerie? Al punto che magari, quando sei giovane e inesperto e hai la possibilità di un incontro vis à vis, ti ritrovi a parlarci di argomenti terra-terra come le bollette da pagare invece che a librare nell’aria i discorsi alati che credevi degni degli spiriti eletti; mentre più tardi, quando ormai sei maturo e l’esperienza ti ha zavorrato di ogni tipo di umiliazione, ecco che scopri in loro l'essenza del più perfetto muro di gomma, che con insensibilità suprema ti rimbalza addosso il tuo dispiacere, la tua colpa, il tuo dolore, insomma quello che hai sempre sospettato: l’essere un buono a nulla.

Attenzione: La linea e l’ombra non è un libro “contro” il Bauhaus, che anzi ne risulta omaggiato a partire dalla font prescelta per la stampa, ovvero la DIN (acronimo di Deutsches Institut für Normung, ideata nel 1923 e adattata alla segnaletica a elevata visibilità in uso nelle Ferrovie), «adottata dal Bauhaus con SANS-SERIF e UNIVERSAL che nel 1925 lo studente/designer austriaco Herbert Bayer aveva sviluppato per razionalizzare ulteriormente i caratteri tipografici». La scuola – con la sua quotidianità fatta di esaltazione e disciplina, eccessi e rigori, enfasi e disincanto, spleen e gioia di vivere, rivoluzioni in nuce e tempeste ormonali in corso, celebrità dell’arte e perfetti sconosciuti – è innegabilmente presente all’appello in ogni pagina; solo che tendiamo a percepirla attraverso la cattiva coscienza di un sostanziale incapace, che nell'intendere la bravura altrui come una minaccia si condanna alla stessa infelicità a cui condannano gli amori non corrisposti: e quanto, invece, potrebbe essere più appagato, risolto e soddisfatto se solo non si ostinasse a cercare se stesso dove potrebbe tutt’al più trovare solo il simulacro di un Erich fantoccio, tronfio di un vittimismo che lo fa attendere nel desiderio nascosto di onoranze funebri di riscatto? Per questo, fermo restando che il Bauhaus, per la totalità dei suoi iscritti, non fu la preparazione alla scalata del gradino più alto del podio, ciò che sembra interessare maggiormente l’autore – che nello scrivere queste pagine ha sapientemente fatto reagire verità storica e personaggi realmente esistiti con il caso limite (ma davvero così isolato?) di uno studente senza qualità e troppo ottuso per comprenderlo – è grattare via l’eccesso di dorature e indoramenti che rivestono una pillola ancora così difficile da mandare giù: perché l’imbuto del successo è stretto come il più millimetrico dei tubicini, le maglie della fama sono fitte come le più infinitesimali delle feritoie, la firma che si ricorda è una, e quelle obliate, a dispetto di ogni promessa, sono innumerevoli.  

Chissà se nelle intenzioni di Alfredo Accatino c’era quella di scrivere un libro che potesse servire anche come cartina di tornasole per la mitomania così cialtrona, trasversale e perniciosa che caratterizza platealmente il nostro oggi. Chissà se con il suo La linea e l’ombra voleva riferirsi al passato – e che passato: un hic et nunc che incrocia la precisione dei riferimenti storici con le vaghezze suggestive del mito e della leggenda, dunque il set ideale in cui far agire un perfetto trickster o un autentico bluff – per alludere a un presente tra i più ipocritamente promettenti in materia di celebrità, prestigio e ricchezza (anche e soprattutto in quei settori in cui le discriminanti del genio, della dote e della bravura avrebbero ogni pretesa di porsi come conditio sine qua non). Magari è così, magari non è così, ma di certo non si può fare a meno di pensarlo tenendo conto anche degli interessi di lungo corso dell’autore, che con i volumi di recente pubblicazione dedicati agli Outsiders ha fatto conoscere ai più le storie dimenticate (o semplicemente ignorate) di decine e decine di “magnifici perdenti”, ovvero artisti che il famigerato “sistema” e altre assortite variabili hanno destinato a un sicuro e duraturo anonimato.

Il caso di Erich Kroll, di un giovane uomo che si condanna alla frustrazione perpetua (o forse no?) per l’incapacità di riconoscere i propri limiti e per l’ottusità di rivendicarsi vittima di chiunque tranne che di se stesso, evocherà senza dubbio nel lettore la memoria di molte altre storie, dentro e fuori dai libri. E se Accatino sembra concedere al suo protagonista il beneficio di una qualche illuminazione finale – fosse anche un barbaglio tardivo, un lampo di autocoscienza che fa risplendere di colpo l’opacità di una vita di cieli neri, un barlume a tutti gli effetti “lunare”, lontanissimo eppure vicinissimo come il senno di certi uomini che hanno dovuto recuperare il proprio su pianeti che non erano la Terra – resta da chiedersi quanto sia fitto il nostro buio, in cui gli smartphone dell’economia del sé sbrilluccicano in posa e senza posa, nell’Eldorado dell’auto-legittimazione, dell’auto-celebrazione e dell’auto-premiazione. Se fosse vissuto oggi, Erich Kroll avrebbe probabilmente trovato la soluzione dedicandosi anima e corpo, e da perfetto Amministratore Delegato di Sé Stesso, alla cura di un profilo su qualche social network, incurante di ogni eventuale rifiuto da parte di istituti, critici e pubblici evidentemente faziosi e non ancora pronti per il suo avvento; avrebbe avverato la sua nemesi nella dilatazione (quella più casereccia e a portata di mano) dei canonici quindici minuti di fama, e quasi sicuramente, nell’essere troppo impegnato a raccontarsi, avrebbe perso l’occasione per leggere un libro come questo di Alfredo Accatino: un libro che, più che parlare a lui, parlava proprio di lui. Se conoscete un Erich Kroll qualsiasi, o se leggendo questo commento avete il sospetto di somigliargli in qualche modo, La linea e l’ombra è il romanzo che fa per quella persona come per la vostra: una storia contro l’accanimento più inutile che possa esistere, che ci toglie dall’infelicità per ciò che non siamo e ciò che non abbiamo e che aiuta a riappacificarsi contro il tabù di una normalità incurante del dare notizia, del fare il pieno di like e del finire in trend topic. Anche, ma non solo, con il passepartout dell’arte facile facile, quella che non coincide mai con la molta bellezza del molto pensiero.

Cecilia Mariani