La salute mentale è politica
di Piero Cipriano
Fuoriscena, giugno 2025
pp. 190
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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In un’epoca in cui il disagio psichico viene spesso relegato a questione individuale, ancor meglio se “curabile” in silenzio con una prescrizione da trenta compresse al mese, Piero Cipriano, psichiatra di lungo corso, ci ricorda che la salute mentale è (anche) una questione collettiva, sistemica, e quindi politica. Con La salute mentale è politica, l’autore compie un gesto tanto necessario quanto scomodo: sposta il baricentro della riflessione dal sintomo al contesto, dall’individuo alla società, dal paziente alla struttura che lo definisce tale.
Sin dalle prime pagine è chiaro che non ci troviamo di fronte a un manuale tecnico né a un memoir nostalgico dell’epoca basagliana. Cipriano, con la sua prosa che sa essere asciutta, militante ma non ideologica, ci guida in un’indagine lucida e profondamente critica dei meccanismi contemporanei della psichiatria. E non lo fa da spettatore: parla da medico, da osservatore partecipante, da uomo che per trent’anni ha abitato i servizi pubblici e le loro contraddizioni. Per questo motivo, ogni riga di questo libro ha il peso di un’esperienza che scava nel tempo e interroga il presente.
«Aveva ragione Basaglia: il vero manicomio, su cui dovremo agire, si chiama medicina, si chiama ospedale». (p. 24)
Così Cipriano smonta con precisione chirurgica l’idea che la chiusura degli ospedali psichiatrici equivalga a una rivoluzione compiuta. Secondo l’autore, il manicomio non è un edificio: è una logica, e quella logica oggi si è disseminata. Vive nei reparti di diagnosi automatica, nei protocolli standardizzati, nei DSM aggiornati come software, nel lessico medico che rimuove la biografia in nome della «compliance terapeutica». Vive, soprattutto, nel continuo processo di individualizzazione del disagio: non si sta male perché si è soli, precari, marginalizzati, ma perché si è “disfunzionali”.
È qui che il saggio mostra la sua forza teorica e politica. Cipriano denuncia, ma soprattutto collega: mette in dialogo Foucault e Basaglia, l’antipsichiatria e il neoliberismo, il disagio contemporaneo e il concetto stesso di “cura”. Fa tutto questo con uno stile sorvegliato, a tratti quasi oracolare nella sua essenzialità, ma mai autocelebrativo. L’autore non cerca di distinguersi dal sistema: ci si sporca dentro, proprio per dimostrarne i limiti dall’interno.
Non mancano passaggi che assumono toni più lirici, sebbene sempre trattenuti dalla tensione etica dell’autore. In alcuni frammenti si coglie tutto il disincanto ma anche il dolore di un medico che ha visto troppi corpi sedati e troppe vite ridotte a diagnosi. Perché, sostiene Cipriano, contenere non è prendersi cura, e gestire non è guarire.
Il libro si arricchisce inoltre di riflessioni sul fallimento (anche culturale) della rivoluzione psichedelica, sulle derive del cosiddetto «realismo clinico» e sullo svuotamento spirituale operato da una psichiatria che teme tutto ciò che non si misura, non si quantifica, non si monetizza. In questo senso, La salute mentale è politica è anche un atto di resistenza epistemologica contro la trasformazione del paziente in un utente, della diagnosi in brand, del farmaco in soluzione.
E proprio per questo l’autore si spinge a domande scomode, che restano aperte nella mente di chi legge: «Come fare, allora, a raggiungere un modello di cura che sia prevenzione e vera restituzione di salute mentale?» (p. 157).
Non è retorica, ma una vera e propria provocazione intellettuale. Perché Cipriano non vuole solo raccontare cosa non funziona: vuole proporre, o meglio, ricordare, che esistono alternative. E che l’unica vera diagnosi utile, oggi, è quella che riguarda lo stato della nostra società. Nel suo insieme, il testo si configura come una denuncia argomentata ma non urlata. Il valore letterario non è da ricercare in uno stile decorativo o sperimentale, bensì nella capacità di scrivere con onestà etica, con rigore e con chiarezza. La bellezza, se vogliamo chiamarla così, di questo libro risiede nella sua coerenza politica ed espressiva, nel suo rifiuto di scindere la parola dalla responsabilità.
La salute mentale è politica è un testo che dovrebbe entrare nei luoghi della formazione, non solo per psichiatri, ma per insegnanti, operatori sociali, amministratori pubblici. Non è un libro che si legge per imparare a curare, ma per imparare a guardare. E in un tempo in cui le parole «ansia», «depressione» o «disturbo» sono state svuotate di senso e riempite di pillole, Cipriano ci costringe a chiederci che cosa significhi davvero stare bene. O meglio ancora: chi decide cosa vuol dire star bene?
Alessia Alfonsi
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