La vita normale è una raccolta di racconti che forma uno spaccato di vita. In mezzo c’è la stessa Reza, la sua quotidianità, che si alterna ai racconti tratti da impressioni raccolte in aule di tribunali. Ne emerge uno spaccato di esistenze che mette in evidenza gli invisibili, coloro che abitano la loro vita come fossero fantasmi, in una dimensione costellata da violenza, razzismo, ordinaria follia. Non solo vittime ma soprattutto colpevoli. Il tutto compone un puzzle in cui non c’è spazio per la morale, ma solo per i fatti e le emozioni, senza eccezioni.
Tutto è confuso.
Lei dice che è violento, che beve. Lui che è gelosa in modo morboso, che lo assilla. Stanno insieme da un anno. Lui è contabile in un’azienda informatica.
L’imputato è lui.
Lei non la vedo. Forse è in aula ma non so chi sia. (p.26)
Yasmina Reza, maestra del disincanto e della parola spezzata, torna a parlarci di letteratura con questo titolo che è già ossimoro, minaccia, ironia sorda. È come se cercasse di mettere ordine tra frammenti autobiografici, pagine disordinate e folgoranti e si accorgesse, ancora una volta, che il quotidiano è un teatro di rovina lieve e inesorabile.
Il punto di vista è quello dell’autrice stessa, eppure non c’è mai una posa confessionale. Il tono è secco, tagliente, saturo di non-detto. Reza scrive in levare, tratteggia incontri familiari, momenti ordinari in cui la tensione vibra come su una corda appena sfiorata. Le frasi si inseguono come pensieri affilati nella testa di chi osserva il mondo con malinconia e feroce lucidità: l’amore sbagliato, il padre violento, l’attore pedofilo, il vicino assassino. Tutto è osservato con uno sguardo sospeso, come se Reza si chiedesse continuamente – e ci chiedesse – che senso abbia fingere che le cose siano “normali” o ancora se sia questo assoluto magma di incomprensioni e relazioni la normalità.
La grandezza di questo testo sta nella sua apparente semplicità. Non c’è trama, non ci sono eventi clamorosi. Solo la scrittura, e la scrittura di Reza è tutto. È voce che si trattiene e poi crolla, è pensiero che sembra deviare per poi colpire con esattezza chirurgica. Alcuni passaggi – quelli sui genitori, sull’infanzia, sull’ambiguità del successo – restano impigliati come spine nella pelle del lettore. Si legge La vita normale come si ascolta una conversazione interrotta da lunghi silenzi, in cui ogni parola detta lascia intuire ciò che non può essere detto.
In controluce, si avverte l’eco degli altri suoi libri, ma qui la voce è più spoglia, più intima, priva della maschera della finzione. Il testo si avvicina, per forma e intensità, ai quaderni di Annie Ernaux, pur restando distante nella lingua e nella postura: se Ernaux documenta, Reza distilla. Se l’una tende all’universale, l’altra scava nell’ambiguità personale. Eppure entrambe, nel dire sé stesse, smontano con acume la costruzione fittizia dell’identità borghese.
La vita normale è un libro che si legge in poche ore ma si porta dentro a lungo. È un esercizio di levità crudele, un diario intimo senza intimismo, un’istantanea dell’esistere che rifiuta ogni forma di eroismo. In un tempo che pretende narrazioni lineari, Yasmina Reza sceglie la sconnessione, il vuoto, l’ombra. E ci ricorda che nella vita – anche in quella che sembra normale – la vera rivoluzione è guardare senza distogliere lo sguardo.
Samantha Viva
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