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Dietro la maschera del caro estinto: "La voce di Robert Wright" di Sacha Naspini

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La voce di Robert Wright
di Sacha Naspini
edizioni e/o, 2021

pp. 315 
€ 18,00 (cartaceo) 
€ 11.99 (ebook)
 

Due cose si possono dire subito di Sacha Naspini: che si affrontano i suoi libri con la certezza che ognuno sarà qualcosa di completamente diverso dal precedente; e che in ciascuno, indipendente dal genere verso cui lo porta il suo gusto per lo sperimentalismo, si troverà una tensione sempre crescente, che in qualche modo agghiaccia e trascina.
La prima particolarità del suo nuovo romanzo è la scelta di adottare una inusuale seconda persona singolare con cui il narratore, inizialmente non definito, si rivolge direttamente al protagonista, il quale si trova ad affrontare un momento profondamente destabilizzante della propria esistenza. Valicata felicemente la soglia dei settant’anni, con una moglie più giovane, seppure un po’ nevrotica, un figlio di cui essere orgoglioso e una carriera straordinaria, Carlo Serafini sembra avere tutto. Per quasi trent’anni e più di quaranta film è stato il doppiatore italiano di uno degli attori più straordinari di sempre, Robert Wright, il sogno proibito di tutto il pubblico, in grado di farsi di volta in volta amico fraterno, figlio, amante, qualcuno con cui ogni spettatore sente di avere un rapporto intimo e viscerale, e tutto questo grazie alla voce duttile e sapiente di Carlo. 
Al tavolo di un bar qualcuno si sporgeva da una sedia vicina. “Scusate l’invadenza… Ci conosciamo?”. Conoscevano Robert Wright. Sentirti parlare attivava una sentinella emozionale che mandava la gente al manicomio: toccavi corde intime, evocavi mondi. Ma la tua faccia non diceva niente. […] Era un potere. (p. 20)
La vicenda si apre già nel momento della rottura: quando Robert si suicida nella sua villa in California, dopo una vita di sregolatezze e depressione, Carlo si trova improvvisamente privato non solo di un ruolo, ma quasi di una identità. È stato infatti tanto spesso, e a tal punto, identificato con il divo americano da essersi accovacciato comodamente dietro a quella figura imponente, da averne indossato i panni come fossero un abito tagliato su misura. Nell’istante in cui viene meno Robert Wright, la stessa esistenza del doppiatore perde di senso. Proprio nel momento in cui dovrebbe restare soltanto lui, paradossalmente di Carlo Serafini non c’è più traccia. Risulta perciò tanto più disturbante quel tu insistito, che ci ricorda della sua sussistenza, colta però nell’attimo del naufragio, della totale perdita di controllo. Nella morte di Wright, l’uomo inizia a leggere in trasparenza una via segnata anche per se stesso:
Gli indizi portavano proprio alla strada con cui ti eri preso a sprangate all’inizio: il giullare shakespeariano non riusciva a guardarsi senza cerone. Paranoia, manie di persecuzione, violente crisi depressive, dissociazione dalla realtà. Alla fine un cocktail letale a base di psicofarmaci. Robert Wright aveva tanti personaggi. Tu uno solo: lui. Ora camminavi come un terremotato che ha perso tutto. (p. 173)
Mentre ne osserviamo la deriva, descritta impietosamente, iniziamo anche a fare una conoscenza più approfondita con il protagonista, muovendoci trasversalmente rispetto alla sua vita e alla sua carriera passata. Iniziamo quindi a sospettare che la meschinità del personaggio non abbia niente a che vedere con Robert Wright. Che sia semmai la verità dell’uomo Carlo Serafini, nascosta sotto la maschera brillante dell’attore hollywoodiano, indossata tanto a lungo da diventare seconda pelle – e alibi perfetto. Una volta calata la maschera, ecco riemergere il torbido, che si coagula dapprima intorno alla figura di Vanessa Sarchi. E se la giovane donna, che spunta dal passato per ricattare la famiglia di Carlo, appare inizialmente sadica e squilibrata, poco alla volta si ridistribuiscono le responsabilità e si comprende il ruolo avuto dal protagonista nella sua destabilizzazione.
Il quadro generale che Naspini riesce a creare, grazie alla precisione letale della sua prosa, è quello di fantocci sgradevoli, che si muovono in un contesto dominato da ipocrisia e apparenza. La vita del protagonista si è appiattita dietro la sua voce, che è poi quella del famoso divo americano nell’immaginario collettivo, e se anche cambia il medium percettivo (non più la vista ma l’udito) tutto si riduce comunque a pura superficie.
Appare quindi spiazzante il modo scelto da Carlo per riappropriarsi di sé: sprofondare improvvisamente nel silenzio, rinnegare quella voce che è prima di tutto la voce di un morto. Una volta eliminata quella, ostacolo ingombrante a un pieno accesso al reale, Carlo si riduce a puro occhio: può osservare ciò che lo circonda, coglierne – così crede – le dinamiche sotterranee, rivelare i tranelli che inizia a percepire intorno a sé e che coinvolgono anche le persone che gli sono più vicine. Il suo piano di smascheramento (e il termine può essere letto su più livelli) risulta però grottesco e difficile da realizzare: prevede per il protagonista di diventare un fantasma in casa propria, di rendersi invisibile per poter scoprire una verità che non è affatto quella che lui si aspetta – e sospetta.
La seconda persona attraverso cui cui si sviluppa la narrazione permette di osservare da una distanza ravvicinata, ma pur sempre una distanza, lo sprofondare nell’ossessione di Carlo. È proprio questo lento e progressivo inabissamento, che il personaggio crede razionale, che fa crescere la tensione narrativa a un livello quasi fastidioso per il lettore, il quale osserva la ragnatela avvilupparsi in trame sempre più fitte intorno a colui che crede di esserne il creatore.
La voce di Robert Wright è un thriller tutto interiore, la caccia a un colpevole che si nasconde dentro, non fuori, rispetto alla psiche del protagonista. Con il piglio del grande illusionista Naspini ci conduce in un gioco sottile in cui le carte vengono continuamente rimescolate senza che si riesca a indovinare il trucco, pur sospettandolo. Per questo è importante non cedere alla fatica lungo il percorso, ma arrivare alle ultime pagine, dove i punti oscuri trovano un chiarimento in grado di dare un senso a tutto il percorso narrativo, proprio mentre il castello di impressioni che il lettore si era costruito collassa su se stesso in una cascata di frammenti di specchi, e delle identità scisse, irrisolte del protagonista.


Carolina Pernigo