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Il sogno che trasfigura nei racconti di "Andremo in città" di Edith Bruck

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Andremo in città
di Edith Bruck
La nave di Teseo, 2021

pp. 167
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
 
 
Quelli raccolti da Edith Bruck in Andremo in città sono racconti minimi che diventano varchi sull’esistenza dei protagonisti. La raccolta è affollata innanzitutto di padri, figure un po’ rudi, ma quasi sempre ingenue, di sognatori. Non a caso l’opera è dedicata dall’autrice al proprio, “che dalla vita non ebbe mai niente e da noi immeritati rimproveri”. Si tratta di padri che non si rassegnano alle asprezze della quotidianità e spesso non vengono compresi, ma a tratti si prendono la loro rivincita, come avviene in “Cappuccetto rosso”, con la sua finale, eclatante e fiabesca esplosione di latte e parole:
Deborah, tu non vedi oltre il libro delle preghiere, alzali dunque una buona volta i tuoi occhi e guarda il mondo com’è! […] Stavolta parlo io: ho evitato la morte di un uomo, ho procurato un marito a quella povera ragazza, un padre al bambino, ho tolto due famiglie dal lutto e dalla disperazione; pensi che non valga neanche una vacca il mio lavoro? Lo pensi seriamente? Guarda il secchio, è già pieno di vita! Bianco come la mia coscienza! (p. 36)
Sono sempre i padri che trasmettono alle figlie l’idea che “qualche volta la necessità rompe la legge” (p. 47) e che, nonostante i duri precetti religiosi, si deve pur sopravvivere in qualche modo. E se da un racconto all’altro spesso ritroviamo gli stessi nomi, calati in contesti diversi, questi assumono valenza universale. Le giovani protagoniste di ogni vicenda si fanno occhi per cogliere le incongruenze del presente in cui sono inserite, della loro umile realtà, le piccole e grandi ipocrisie della società (che emergono nel confronto tra ebrei di diverse condizioni, o tra ebrei e cristiani). Quella che viene a tratti enunciata è una filosofia pragmatica, derivata dal quotidiano o dalla storia:
Tanti coltelli hanno toccato il nostro cuore, tanti piccoli tagli lo hanno fatto sanguinare, e non erano a zig-zag come i miei tagli, altre mani più fredde e più sicure hanno operato sull’uomo vivo e non sull’oca morta. (p. 48)
Fulcro della raccolta è il racconto da cui questa prende il titolo. “Andremo in città” è la storia di un amore viscerale tra fratelli: la risoluta Lenke e il piccolo Beni, che non può vedere. Lenke trasfigura per lui la realtà, anche quando questa diventa dura e inaccettabile, nel momento dello scoppio della seconda guerra mondiale:
Pochi giorni dopo la partenza di mio padre, Beni mi chiese che cos’era la guerra. Gli risposi che non sapevo esattamente che cosa fosse, ma che in paese c’erano degli uomini con le medaglie che nei giorni di festa parlavano di gloria e di patria. E c’erano tutti gli altri, che quella gloria non la capivano o non la volevano. (p. 76)
Ben prima de La vita è bella, il racconto di Edith Bruck ci mostra come uno sguardo di protezione e affetto possa salvare almeno i sogni di chi è innocente. In questo racconto come nel successivo, che narra la storia d’amore impossibile tra l’ebrea Erika e il ricco cristiano Endre, la città rappresenta un miraggio lontano e irraggiungibile, ciò che non si può avere o raggiungere ma solo desiderare, la speranza di una vita diversa.
Oltre che di padri, l’opera di Bruck è popolata infatti anche di giovani donne che cercano un proprio posto nel mondo, e si trovano spesso ad avere un passo diverso rispetto a quello raccomandato dalla tradizione.
Uscita per la prima volta nel 1962, la raccolta contiene tocchi di viva modernità nella delicatezza con cui fa emergere, spesso senza esplicitarlo, un forte bisogno di individualità delle protagoniste. Questo bisogno si accompagna però il più delle volte con un’esigenza di comunità, di riconoscimento da parte di spiriti affini che non è così scontato trovare intorno a sé. Così alcune partono per Israele, attratte dal miraggio di un nuovo domani in un altrove più aperto, più ricco di opportunità. Altre si muovono spaesate in contesti estranei, alla ricerca di qualcuno che parli la loro lingua, che è non tanto una forma di comunicazione esteriore, ma qualcosa di profondo, che nasce dall’interno e che spesso è rivolto al passato, a quei legami famigliari o amicali che sono stati spezzati dalla barbarie.
Da allora sono passati anni, secoli per me, e le mie domande si sono accumulate senza che mia madre potesse più rispondermi. Ho saputo che il pane azzimo è fatto di farina e di acqua. E ho saputo che col grasso di milioni di ebrei hanno fatto sapone nei lager. (p. 143)
La Shoah non è oggetto diretto di narrazione in questa raccolta (differentemente da quanto avviene nel memoir Il pane perduto, finalista al Premio Strega e vincitore dello Strega Giovani 2021, recensito anche qui). Eppure è presente, trauma non rimosso, presenza oscura che allunga le sue ombre sulle vite dei protagonisti, evocata nei ricordi di chi sopravvive senza le persone amate, o nelle conseguenze luttuose che ha avuto sulla comunità ebraica.
Riluttante verso ogni forma di eccesso espressivo, Edith Bruck racconta con una prosa asciutta, che mette in rilievo attraverso un preciso bilanciamento delle parole il sentire essenziale dei personaggi: le palpitazioni d’amore, le paure, la fame e l’abbandono, la gioia dirompente nel momento in cui si sentono finalmente a casa. Ecco allora che l’esito è una raccolta equilibrata, che vuole risalire al nucleo delle emozioni e dei frammenti esistenziali che rappresenta, ben radicati in un preciso contesto storico, ma in qualche modo anche senza tempo, nella loro valenza assoluta, immediatamente riconoscibile.  

 
Carolina Pernigo