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«Non è ognuno libero di essere quello che è se non nuoce a nessuno?». "Il pane perduto" di Edith Bruck

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Il pane perduto
di Edith Bruck
La nave di Teseo, 2021

pp. 128 

€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


È solo nel 1954, dopo anni di peregrinazioni, che Edith Bruck arriva in Italia. L’adozione della lingua italiana per la scrittura è quindi scelta attiva, consapevole, funzionale a un’espressione misurata, che pesa ogni parola. Ne Il pane perduto, recentemente edito da La nave di Teseo, si percepisce anche l’influsso di una lunga pratica poetica. La narrazione, che si avvia a partire dall’infanzia ungherese della protagonista, procede per lampi d’immagine, per ricordi assemblati sulla base delle intermittenze della coscienza, a violare l’ordine più strettamente cronologico degli eventi. L’assunzione del punto di vista infantile permette di far percepire, con poche lapidarie battute, l’incongruenza, l’inaccettabilità del nazismo: “Mamma, cosa succede, perché non ci vogliono? Anche noi siamo ungheresi, no?” “Per loro no, solo ebrei. Siamo ebrei” (p. 20). Quella che fino a poco prima era una dichiarazione d’identità, adesso si fa marchio d’infamia, mentre un’ombra scura cala sulla famiglia e sul paese tutto. Non senza una certa tenerezza protettiva Edith descrive dall’esterno la sé bambina, oscillante tra la negazione e la progressiva presa di coscienza, per mostrare in realtà l’infanzia deturpata di un intero popolo. È solo nella notte della deportazione, in cui la Ditke tredicenne si trova improvvisamente trasformata in un’adulta, che la narrazione passa alla prima persona, che la protagonista si fa pienamente carico della propria storia. Accade durante la settimana della Pasqua, particolarmente cara alla fede ebraica perché ne narra il viaggio di liberazione. Ciò che gli abitanti di Sei Case sperimentano, invece, è la fine della libertà, l’inizio di un viaggio da incubo. E il pane della festa, il pane lasciato a lievitare, il pane mai cotto, rimane nella casa vuota come un presagio funesto alla coscienza dei prigionieri. 
Nell’essenzialità delle frasi, nella nudità delle parole, sta la brutalità dell’arrivo al campo dì concentramento: 
“Mi hanno separata dalla mamma, la mamma, la mamma” ripetevo mentre venni spogliata, e cadevano le mie trecce con i fiocchi e venivo rasata, disinfettata, rivestita con una lunga palandrana grigia, zoccoli di legno ai piedi e sul collo appeso un numero: 11152, da allora il mio nome. (p. 42)
Birkenau, Auschwitz, poi Dachau. È una sintesi retrospettiva, fatta da una Edith ormai anziana e che sente che le parole rischiano di mancarle, quella proposta nel volume. Una sintesi scritta inizialmente a mano, come tutte le opere precedenti, e poi ribattuta al computer da assistenti fedeli. L’itinerario di una vita che può apparire “inverosimile” (p. 125) persino a chi l’ha vissuta, pensando a tutto ciò che ne ha fatto parte. Il racconto quindi non si ferma al campo, dove il primo obiettivo per Ditke e Judit è sopravvivere, ma anche cercare di “essere guardiane della nostra vita senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare all’indomani” (p. 45). Funziona, in questo, l’educazione della madre persa nel momento della prima selezione, figura severa ma molto amata, continuamente ricordata attraverso le pagine come presenza assente che incoraggia, che fa riecheggiare le sue interpretazioni del presente nelle orecchie della figlia. La durezza della vita nel lager non si attenua durante la marcia per uscirne, che per molte prigioniere è la morte, per altre la testimonianza diretta del livello a cui può scadere l’aberrazione umana. Nel campo maschile di Bergen Belsen, di fronte a mucchi di uomini già cadaveri, la protagonista raccoglie un lascito pesante da accogliere: “Qualcuno di loro diceva, con l’ultimo sguardo “no, no, no”, qualcuno balbettava il proprio nome e l’origine, qualcuno riuscì a dire: “Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi” (p. 55). 
Una volta liberate, Edith e Judit realizzano che non è facile neanche tornare a casa, e che la normalità è lontana. Guardati con sospetto, evitati da tanta parte della popolazione, gli ebrei superstiti sono “dispersi nel mondo dei vivi (p. 63) e quasi non ricordano come tornare a essere vivi a propria volta. Persino il ricongiungimento con i membri della famiglia sopravvissuti non è quell’incontro straziante che le due sorelle desidererebbero. Se per il lettore è sempre sconvolgente leggere le testimonianze dai campi, in questo caso lo è anche leggere della vita delle protagoniste dopo il campo, realizzare se mai ci potevano essere dubbi che con l’apertura dei cancelli di Auschwitz non è ancora finito tutto. La sordità, la cecità di chi è rimasto fuori  o di chi si rifiuta di parlare di quanto è successo  condannano alla solitudine chi torna, creano l’esigenza di parlare, di scrivere, di far sentire la propria voce: “gli altri non ci capiscono, pensano che la nostra fame, le nostre sofferenze equivalgano alle loro. Non vogliono ascoltarci; è per questo che io parlerò alla carta” (p. 73). Proprio quel mondo che dovrebbe inchinarsi, prostrarsi a chiedere perdono, diventa luogo ostile, terra di nessuno: “il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse” (p. 68). La prosa asciutta di Edith Bruck restituisce senza moralismi la desolazione che è la vita di tanti sopravvissuti. Persino il sogno della Terra promessa si infrange brutalmente di fronte alla realtà: dopo Auschwitz, non c’è spazio per l'illusione, neanche nel neonato stato d’Israele.
La Shoah ti resta dentro, ti strappa a te stessa, tanto che anche quando l’esistenza sembra aver ritrovato i suoi binari, quando si è trovata finalmente una casa, e un amore degno, quando non manca il pane quotidiano e arrivano i riconoscimenti e le celebrazioni, ci si può guardare dall’esterno e non riconoscersi. Si può provare una lancinante nostalgia per un’infanzia lontana e irrimediabilmente perduta.
Non si può riferire nulla, perché bisognerebbe allora citare ogni singola parola, della "Lettera a Dio" con cui Edith Bruck chiude il suo scritto; non si può dire delle domande senza risposta, né dell’unica a cui sia sensato darla perché la propria vita trovi un senso e perché, nonostante le ombre scure che incombono all’orizzonte, quello che è successo in passato non possa mai più ripetersi, fuori e dentro ciascuno di noi. Non si può dire niente, perché l'unica possibilità è leggere direttamente, farsi toccare in prima persona, commuoversi con Edith, arrivare a capire con lei dove, forse, si trovi l'unica possibilità di una salvezza per l'umano.

Carolina Pernigo