Braudel immagina l’Europa come un vastissimo quadro su cui si accendono a intermittenza luci nelle zone più varie: quella italiana è la più splendente. (p. 113)
L’immagine offerta da Braudel, quasi pittorica, racchiude in sé un’intera idea di civiltà. L’Italia, in questa visione, è una luce intermittente, ma intensa: protagonista assoluta in certi momenti della storia, silenziosa o contraddittoria in altri – come nel tempo che stiamo vivendo. È proprio questa luce che Luigi Zoja, uno dei più rilevanti psicoanalisti e intellettuali italiani contemporanei, cerca di indagare nel suo poderoso saggio Narrare l’Italia. Già il titolo non traduce solo una scelta stilistica, ma una vera e propria dichiarazione di intenti. L’autore non “spiega” la storia o una parte della storia d’Italia come farebbe uno storico, ma la narra, perché ciò che gli interessa è la dimensione simbolica, psichicologica e collettiva della nostra identità nazionale. In altre parole, l’Italia non è solo un insieme di fatti; è piuttosto un vero racconto impresso nel nostro DNA, fatto di miti, traumi, illusioni, nostalgie e aspirazioni. Il titolo anticipa allora il tono e il metodo del saggio: non una cronaca degli eventi, ma un’indagine sul modo in cui abbiamo costruito (e continuiamo a costruire) l’idea di “Italia”. Il lettore è immerso completamente nella ricerca, insieme all’autore, di quel filo narrativo che unisce le diverse epoche, anche molto diverse da loro, che hanno fatto la nostra cultura e la nostra storia.
Zoja individua nelle città-Stato dell’Italia preunitaria, e in particolare nei Comuni e nelle Signorie del Rinascimento, il vero laboratorio dell’identità italiana. È in quel momento storico, non nel Risorgimento, che l’Italia “splende” davvero nel quadro europeo proprio come nella citazione iniziale.
Lontane da un’unità politica ma vivacissime culturalmente, le città italiane produssero in pochi secoli una quantità impressionante di opere, idee, arte, invenzioni. Questa fioritura nasceva dalla competizione, ma anche dalla libertà e dal radicamento nei territori: Firenze, Venezia, Milano, Bologna, ognuna con la sua voce distinta e orgogliosa.
Zoja suggerisce che la vera italianità, quella che ha incantato il mondo, si sia formata in questo contesto policentrico e creativo, non tanto sotto un’unica bandiera, quanto in una costellazione di identità locali.
Il Rinascimento diventa così il grande mito fondativo dell’Italia: un’identità nata dalla cultura e non dalla guerra, dalla bellezza e non dall’uniformità. Citando lo storico francese Milza, Zoja scrive:
«Dante e Giotto appartengono già al Rinascimento, Shakespeare e Molière ancora al Medioevo».Questo concorda con quella storiografia francese secondo cui l’Italia sarebbe stata di circa due secoli più evoluta rispetto ai paesi vicini: inclusa la Francia, che era in anticipo sul resto dell’Europa.
Se il Rinascimento rappresenta per Zoja il momento fondativo dell’Italia, il Risorgimento appare invece come un tentativo più forzato di costruire un’identità nazionale, in quanto, pur non contestandone gli ideali di libertà e indipendenza, lo studioso ne mette in discussione gli esiti concreti. L’Unità d’Italia fu il frutto di una spinta prevalentemente politica e militare, più che culturale. Il nuovo Stato nacque attraverso una centralizzazione spesso imposta, che chiese un sacrificio profondo a milioni di italiani. Zoja invita a riconoscere i costi umani, sociali e psicologici dell’unificazione, in particolare nel Mezzogiorno, dove la conquista piemontese si tradusse in un conflitto interno aspro e duraturo, rimosso a lungo dalla memoria collettiva. Il “sacrificio” di cui parla riguarda lo sradicamento di intere popolazioni da una storia regionale forte, per essere integrate in una struttura statale percepita come lontana, estranea, talvolta ostile. In questa transizione, non solo si perse parte della ricchezza culturale locale, ma si crearono anche le condizioni per un senso di disgregazione e marginalità che ancora oggi attraversa il paese. L’autore insiste su un aspetto spesso rimosso: l’Unità fu percepita da molti come una imposizione calata dall’alto, come si è già detto, perché non nata da un sentire collettivo e condiviso. Lo stesso Garibaldi, sottolinea Zoja, figura centrale nel processo risorgimentale, arrivò a riconoscerlo.
L’unificazione viene decisa dalle élite e dalla politica europea: le maggioranze, soprattutto meridionali, sono più spesso contrarie che indifferenti. Ma mancano di mezzi. La relatività dell’eroismo è un tema tragico, cui il Risorgimento diede attualità. Tolse dalla narrativa la profondità della tragedia, dove bene e male erano complessi. Eppure, proprio nel Risorgimento la relatività era visibile, contraddittoria quanto il rapporto tra i suoi ideali di giustizia e quelli di potere nella società. Pisacane era un duca, i fratelli Bandiera figli di un ammiraglio asburgico. Vennero massacrati dai proletari meridionali che volevano «liberare»: molti dei quali, di lì a poco, saranno ammazzati dai piemontesi come briganti, ma segretamente venerati come eroi sia dai rappresentanti dell’estinto Regno Borbonico, sia dal popolino. (p. 222)
Eppure, Zoja non assume un tono nostalgico o meramente critico. Al contrario, riconosce in quella varietà preunitaria, fatta di autonomie, dialetti, economie locali, patrimoni simbolici distinti, una risorsa preziosa, che ha alimentato per secoli la vitalità culturale italiana. Il particolarismo, spesso condannato in nome dell’unità, viene così riletto come una forma storica di pluralismo creativo. Non l’ostacolo, ma uno dei segreti della ricchezza italiana.
Nel suo Narrare l’Italia, Zoja affronta anche il tema del fascismo, il “cuore oscuro d’Italia”, citando lo storico Thompson (p. 395). Per l’autore, il fascismo non è solo un’aberrazione politica o un periodo storico da condannare, ma un fenomeno che nasce come risposta a un vuoto profondo di potere e di identità collettiva. Zoja indaga molto bene la figura di Mussolini, del suo percorso che lo ha portato ai vertici del comando dell’Italia unita in quel ventennio nero e sottolinea l’importanza della sua opera di propaganda attraverso i media dell’epoca
[…]come ha dialogato Mussolini con l’inconscio collettivo degli italiani, cercando di sedurli gradualmente, di ottenere un appoggio sempre più sostanziale? Il Duce partì da intuizioni (dal suo istinto, dirà). In un certo senso, avvertiva non solo la nuova dipendenza della politica dai mass media, ma anche la crescente forza delle figure e delle immagini, possibilmente unite ai suoni, rispetto ai concetti. […] quanto ai veri e propri contenuto Mussolini inaugura un nuovo paradigma narrativo, un nuovo rapporto con la verità. (pp. 459-460)
Il fascismo si presenta come un “riempitivo”, una forza che sopperisce a un’incapacità dello Stato di integrare e unificare davvero il paese, di dare senso e continuità al racconto nazionale. In questa luce, il fascismo non appare semplicemente come un’interruzione violenta, ma come un sintomo di un malessere storico più profondo, legato alle contraddizioni irrisolte del processo di unificazione e alla fragilità della nostra identità comune. Zoja sottolinea come le pulsioni autoritarie, la ricerca di un ordine forte e l’uso della violenza politica siano espressione di questa crisi identitaria, di un’Italia incapace di trovare un equilibrio duraturo tra unità e pluralità. In questo senso, il fascismo rappresenta un “cuore nero”, perché incarna le ombre, le ferite e le tensioni non sanate della nostra storia.
Dopo aver attraversato le tappe centrali della storia nazionale, Zoja guarda all’Italia del dopoguerra e al nostro presente. Anche in questa parte del saggio, il metodo dello studioso non cambia: non vi è una ricostruzione cronologica degli eventi, ma un continuo interrogarsi sulla dimensione simbolica e psicologica della nostra identità collettiva. Nel secondo Novecento Zoja vede un ritorno sotterraneo dello spirito dei Comuni, quel pluralismo creativo e radicato nei territori che, senza grandi proclami, ha permesso all’Italia di risollevarsi dopo il fascino e le due guerre, grazie alla forza diffusa delle comunità locali, all’arte, alla cultura, al recupero delle realtà specifiche del territorio. La stessa rinascita italiana del dopoguerra viene letta come un fenomeno culturale: è la ripresa della nostra capacità di produrre cinema, design, moda e, non ultima, l’arte culinaria.
Il viaggio attraverso la costruzione della nostra identità arriva ai giorni nostri con la consapevolezza delle fratture, della complessità del nostro Paese, ma anche delle potenzialità ancora inespresse.
Nel leggere un’opera così poderosa, non bisogna aspettarsi che l’autore affronti ogni aspetto o approccio, come ad esempio in saggi di natura economica o strettamente politica. La sua scelta è stata quella di “narrare” l’Italia, attingendo a fonti autorevoli, ma privilegiando una prospettiva simbolica e culturale, credo che questo non sia un limite, anzi una forza, perché risparmia al lettore la faziosità di certe visioni. Uno dei pregi più evidenti di Narrare l’Italia è la prosa con cui è scritto: piacevole, accessibile, non accademica. Questo è un saggio da assaporare a dosi, con calma, è un invito a ripensare e a sfatare molti luoghi comuni sul nostro Belpaese, offrendoci uno sguardo nuovo e profondo sulla nostra identità.
Marianna Inserra
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