in

Storie di incontri e di musica – su "Jazz cosmopolita ad Accra" di Steven Feld

- -

 




Jazz cosmopolita ad Accra. Cinque anni di musica in Ghana
di Steven Feld
il Saggiatore, 2021

traduzione di Marco Bertoli

pp. 424
€ 40,00 (cartaceo)
€ 15,99 (ebook)



Chi legge per la prima volta Jazz cosmopolita ad Accra di Steven Feld, uscito a luglio per il Saggiatore, può rimanere sorpreso di come questo non sia la classica storia del Jazz e non sia un’analisi dettagliata sull’influenza della musica africana sulla musica jazz contemporanea, ma di come abbia un’impalcatura narrativa, molto più simile al memoir che a una dissertazione accademica più o meno divulgativa che sia. È un libro che si muove a zig-zag, transmediale, in cui la scrittura è sì importante e avvolgente (è fluida e sentita, merito anche della precisa traduzione di Marco Bertoli), ma è usata soprattutto per mobilitare forme visive e uditive, per veicolare un’idea di immersione totale nel mondo ghanese, prima che jazzistico. Forse addirittura per veicolare un’idea di mondo proprio attraverso il jazz. Lettura, scrittura, musica e video vanno di pari passo in questa opera, si completano e si illuminano a vicenda, e completandosi a vicenda parlano della vita in Ghana, della vita in Africa, della vita che si può avere solo con una passione che arde dentro.  

No, Jazz cosmopolita ad Accra non parla solo di musica, ma anche di un mondo lontano per noi; anzi, parla di musica proprio perché affronta questo mondo, affronta le sue peculiarità e i suoi problemi, i suoi retaggi storici. Ogni forma è usata per mettere in risalto la necessità di desettorializzare le competenze e di aprire il concetto di musica e di musicista, anche perché gli esseri umani non sono mai definiti da un singolo settore. E allora non si può leggere questo libro senza ascoltare le musiche suonate dai protagonisti, senza immergersi nei tre DVD creati dall’autore e senza guardare il bel documentario J.C. Abbey Ghana’s Puppeteer, messo a disposizione dall’autore e dalla casa editrice. Cosmopolitismo e ibridismo delle forme e dei suoni; è su questi due punti fondamentali che si muove l’intero lavoro di Feld. Cosmopolitismo e ibridismo, multiculturalità e pluralità d’ispirazione, confluenza di influssi. Questo modo d’intendere la vita (e l’arte) prende forma in continui piccoli scarti, in un gioco all’avvicinamento, in una ricerca di un’essenzialità multiforme e non definitoria, in storie diverse, narrate da voci diverse. Sono approssimazioni sempre più strette, mai chiuse, mai imbriglianti. Perché non c’è nessuna possibilità di una definizione rigida, non c’è nessuna possibilità di definizione univoca per chi vive, soprattutto per chi vive di jazz ad Accra. 

Ma la vita è anche piena di ingiustizie, piena di lotte da fare e già fatte, piena di conquiste che non bisogna mai dimenticare. Non sorprende allora che al centro della riflessione dei maggiori musicisti ci siano il problema razziale (è la storia stessa del jazz, oltre alle sue strutture libere, che richiede una riflessione profonda sul problema) e il problema dell’identità, nazionale e personale che sia. È proprio su questi temi che parte e si sviluppa il documentario allegato, J.C. Abbey, Ghana’s Puppeteer; ed è proprio dal celebre discorso del 6 marzo 1957 fatto da Kwame Nkrumah al popolo ghanese subito dopo la nascita dello stato del Ghana che la riflessione sulla musica, portata avanti e dal libro e dal documentario, si fa più concreta e profonda. Il jazz è un grido di ricerca di libertà, di sofferenza e di aspirazione, il jazz è strettamente legato all’identità di ogni musicista e di ogni nazione. Il jazz è connaturato con la ricerca di un’identità forte e con il bisogno di libertà e di creazione di una comunità. E, in questo libro, questa forma unica di jazz è la forma di dichiarazione di passione e d’amore di ogni persona che vive sull’intero territorio africano verso le proprie radice, verso la propria terra. Non sorprende allora che il documentario unisca il tema razziale e identitario a quello della musica jazz; e non è un caso che inizi proprio con il celebre discorso del 1957:  
«Da oggi dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento, le nostre idee… dobbiamo capire che non siamo più dei colonizzati, ma un popolo indipendente. Dimostreremo al mondo, alle altre nazioni, che anche se giovani siamo pronti a gettare le nostre proprie fondamenta. Come ho detto all’assemblea minuti fa, voglio sottolineare che creeremo una nostra personalità e identità africana. Solo così possiamo mostrare al mondo che siamo pronti per le nostre battaglie. La nostra indipendenza non ha senso se non sarà concessa la liberazione integrale del continente africano».
Tutta l’opera è una narrazione di incontri, una storia di vite vissute all’insegna del jazz, del rapporto con l’altro e dell’attaccamento alla propria terra. Ogni scorcio di vita narrata è come «una forma di recupero della presenza, dove il presente non sia completamente svuotato e il passato incomba su quanto va delineandosi» (p. XXII); ogni riflessione sulla musica è sempre concretizzata attraverso l’incontro con l’altro, attraverso il dialogo a più voci, in cui non c’è una distinzione netta tra un tu e un io, ma è presente uno scambio continuo dei pensieri dei protagonisti, un contrappunto di voci e di pensieri, nonché di riflessi in cui «domande tornano in bocche diverse» (p. XXIII) e in cui si scorre carsico il fiume dell’improvvisazione.
 
L’opera, sempre attenta alla precisione nell’uso dei termini tecnici, è divisa in sei capitoli ed è caratterizzata da tre voci africane fondamentali. Queste sono le voci di tre grandi jazzisti (Nii Noy Norty, Guy Warren alias Ghanaba, Nii Otoo Annan), ognuno dei quali ha come centro nevralgico un interesse maggiore per un aspetto diverso del jazz: per un grandissimo autore (John Coltrane è largamente citato in tutto il libro) o per un modo di vedere il jazz, nonché di suonarlo. Oppure un modo di sentire e sublimare le tristi storie globali di razza e razzismo. Il problema del razzismo è presente e affrontato, tuttavia non copre mai il tema centrale della libertà e della bellezza della musica cosmopolita di Accra. Il razzismo è sublimato nella musica, ogni sofferenza patita trova un riscontro nell’arte e nel modo di vedere il mondo intero. È un’opera fondamentale per comprendere il Ghana, la vita musicale africana, per cercare di avvicinarsi a un mondo molto diverso dal nostro e per immergersi in una società diversa, con delle regole interne ed esterne molto lontane da quelle a cui siamo abituati, seppur sempre simili. Non è un caso, che lo stesso Feld abbia messo in luce come non si sia poi così diversi e come, tra coloro che hanno la passione verso uno stesso argomento o una stessa cosa, ci sia «la sensazione che, del tutto estranei com’eravamo l’uno all’altro, potessimo conoscerci all’istante» (p. 24) La musica è il più forte dei legami possibili, perché è un sedimento di esperienza e di vita, perché è legata all’Amore, alla morte, alla politica, alla sofferenza, a tutto ciò che è fondamentale per l’esistenza dell’uomo. Spesso la musica mi porta via come fa il mare, scrisse Baudelaire. Ed è proprio così, la musica ti porta via, ti fa raggiungere posti che non avresti mai potuto conoscere, ti fa vivere in modi differenti, imparare a unire estremi diversissimi e che prima non vedevi nemmeno, sentire punti di vista dissimili dai tuoi. E il jazz di Accra, forse, ne è l’esempio più fulgente. 


Giorgio Pozzessere