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"Gli iperborei" di Pietro Castellitto: crisi morale (e narrativa)

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Gli iperborei
di Pietro Castellitto
Bompiani, 2021

pp. 213
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


Friedrich Nietzsche ne L'Anticristo recupera il mito degli Iperborei, coniugandolo con il superamento dell'orizzonte dell'uomo moderno: 

Guardiamoci in faccia: siamo iperborei. Siamo ben consapevoli della diversità della nostra esistenza. “Né per terra né per mare troverai la strada che conduce agli iperborei”: già Pindaro riconosceva questo di noi. Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità… Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita per interi millenni di labirinto. Chi altri l’ha trovata? Forse l’uomo moderno? “Non so che fare; sono tutto ciò che non sa che fare”, sospira l’uomo moderno… E’ di questa modernità che c’eravamo ammalati, della putrida quiete, del vile compromesso, di tutta la virtuosa sporcizia del moderno sì e no.

Nel libro di Pietro Castellitto, che avrebbe dovuto quindi a ragione intitolarsi I moderni, troviamo invece "tutto ciò che non sa che fare", ossia la storia di un gruppo di trentenni che vivono spiaggiati fra lusso e droghe, figli di primari e giornalisti celebri, miliardari annoiati, cercano lo sballo facile, vivendo in apnea di emozioni e sentimenti. Poldo, l'io narrante, ha portato con sé in barca L'Anticristo e trova che il libro sembri parlare di loro. È pur vero che tanto io che Castellitto (lui per poco) apparteniamo a un secolo che a Nietzsche ha fatto dire di tutto e il contrario di tutto (da D'Annunzio a Hitler, per intenderci), però ho trovato che i personaggi del romanzo di Castellitto non solo non sono oltre il nichilismo, il che ovviamente non costituirebbe un male da un punto di vista né narrativo né tantomeno etico, ma ne sono immersi in maniera del tutto inconsapevole e anche l'affresco che ne viene fuori è di una narrazione che affronta il tema dell'assenza dei valori e della mancanza di senso di esistenze inutili, senza decidersi per una posizione né di radicale revisione di questo mondo che tratteggia, né per un'esaltazione edonistica, di un'affermazione per l'appunto nietzscheana.

Ne vengono fuori dei protagonisti che sono più simili alle cronache pruriginose delle feste dei miliardari di casa nostra che personaggi narrativamente interessanti e paradigmatici di una crisi generazionale o addirittura epocale. Ne vengono fuori personaggi che parlano così:

- Ho rimediato una cocaina morbidissima...Aiutami a finirla, Poldino. - Le stringo forte il culo affondando il naso nella nuca. Rimango un po' nel buio e nel profumo, dove i capelli muoiono. - Amore...- sussurro, - andiamo a pippare. - E poi aggiungo: - Giallo... - E lei aggiunge: - Caldo... - Finché un urlo ci riporta al mondo (p. 149).

La prosa del romanzo è volutamente non uniforme, anche a livello tipografico, perché alterna differenti font ed effetti grafici (anche il barrato), ma il passaggio dal tachicardico capitolo otto

Mi alzo. Vago per casa, esco in giardino. Acqua. Piscina. Tuffo. Nuoto poco. Mi asciugo, rientro in casa. Gocce in testa. Caffè e latte. Arpeggio. Prima il caffè, poi il latte a filo. È cremoso. Giusto (p. 59)

due pagine di paratassi ossessiva, che vira in elencazione, alla parte in corsivo (presumibilmente sequenze riflessive) con un respiro più ampio, non sono armonizzate, così come i flashback, le visioni e le allucinazioni si accatastano alle scene e ai dialoghi, in un guazzabuglio che non ho trovato facilmente comprensibile, anche per il cambio di focalizzazione e anche di denominazione dei personaggi. A p. 30 in un dialogo il "papà" di Poldo e "mio fratello" diventano "il padre" e "il figlio", mentre il dialogo va avanti, quella che rimprovera il figlio è "la madre". Solo una riga dopo però:

Guardavo mio fratello ruttare e lo immaginavo di notte mentre dormiva accanto alla mamma e le stringeva una parte del pigiama per paura che scappasse. E poi lo immaginavo il giorno dopo con la tuta del Marymount sulla poltrona rossa dello psicologo. Si versò un altro bicchiere d'acqua. (p. 31)

 ma di preciso in che tempo ci troviamo? Da dove stiamo guardando questa scena? 

Se è vero che l'io narrante è poco lucido a causa dell'uso di stupefacenti, anche la scelta di una prosa poco lucida deve essere seguita razionalmente. L'impressione è che invece la prosa vada alla deriva come i personaggi che racconta. Senza fare anticipazioni - ci mancherebbe solo togliere l'effetto sorpresa! - si assiste a un crescendo di disavventure (un dito tagliato, un uomo con la cintura di castità, tentativi di annegamento, suicidi), senza che questa escalation si palesi né con un delirio comico (solo una penna alla Céline o alla Bukowsky, a mio avviso, poteva rendere accettabile 

Tuuoraacispieghi... Tu ora ci spieghi - interviene Ciccio lottando contro una terribile secchezza orale - perchééé l'uccello-in-gabbia... HAI? (p. 138).

né con un afflato tragico. Gli eventi, ancora una volta, si accatastano e lasciano il lettore per lo più indifferente, se non infastidito.

È vero che Nietzsche aveva chiamato il nichilismo "il più inquietante degli ospiti", ma di questa combriccola di debosciati, personalmente, non è inquietante l'essere debosciati, ma il non essere riusciti a rendere minimamente interessante la loro crisi morale. Non appaiono outsider, ma purtroppo specchio perfetto del nostro mondo, per cui non si comprende nemmeno la necessità di caricaturizzarli.  

Trovo ingiusto, in generale, richiamarsi alle soavi vette per criticare i contemporanei. Quindi non dirò che l'Uomo senza qualità di Musil o il Doktor Faustus di Mann erano due personaggi ben più iperborei degli iperborei qui recensiti, però è anche giusto che un Autore ricordi che i suoi lettori hanno anche letto le soavi vette ed evitare quindi di spiattellargli come verità 

una cosa che a pochissimi è dato sapere: la Morte e la Vita sono diverse ma non opposte. (p. 83).

Dopo Eraclito, la coincidentia oppositorum, Hegel e, finalmente, Nietzsche, ci era anche arrivato il lettore.

Deborah Donato