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#CritiCOMICS - La verità appesa al filo spinato: "Prigione N. 5" di Zehra Doğan

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Prigione N. 5
di Zehra Doğan
BeccoGiallo, 2021
 
Traduzione dal francese: Scibbolet 

pp. 128
€ 20.00

 



Si può leggere a molti livelli il volume di Zehra Doğan, giornalista e artista curda condannata per i suoi disegni, che racconta la propria detenzione nelle carceri di Diyarbakir e di Tarso e la violenza esercitata dal governo turco contro le minoranze. Il primo è quello della denuncia in senso lato, condotta senza paura delle possibili conseguenze, come atto dovuto alla verità; un altro possibile è quello della riflessione sul ruolo delle donne nella resistenza a questa violenza e agli innumerevoli soprusi. Come ci ricorda nella prefazione Elettra Stamboulis, infatti, “senza un processo completo di liberazione del femminile la libertà non può essere conseguita pienamente” (p. 6). Quest’idea, che sta alla base dell’operato del PKK, da molti paesi considerato un’organizzazione terroristica, vuole le donne impegnate in prima persona nella costruzione di un mondo diverso. Doğan crede in questa determinazione all’azione che la coinvolge in prima persona, e uno degli aspetti su cui si focalizza durante la narrazione è proprio la dimensione del femminile nella vita carceraria.
Il suo è un graphic memoir particolare perché nasce all’interno del carcere e dal carcere viene “fatto evadere”, una tavola alla volta, sfruttando il retro delle lettere di una corrispondente. È un fumetto che vuole fare i nomi, enunciare con precisione date, luoghi e persone: il disegno si fa testimonianza, supporto fondamentale al ricordo di chi ha colpito, di chi ha lottato e resistito, di chi è caduto.
Nel volume non viene rappresentata soltanto la situazione politica o il conflitto che da anni si protrae a danno del popolo curdo, ma anche la quotidianità della vita all’interno della prigione, in cui alle donne è possibile trovare una propria dimensione in virtù di una rinnovata sorellanza:
C’è voluto un mese per abituarsi, perché svanissero tutte le preoccupazioni, perché questo sistema maschilista oppressivo si volatilizzasse sotto le risate delle donne. In galera tutto si sistema con la sorellanza. Con le mie compagne di sventura ritrovo la gioia, e ormai avrò sempre di che sorridere. (p. 28)
La possibilità di confrontarsi con le altre prigioniere politiche, detenute in una sezione specifica della prigione di Diyarbakir, non attenua peraltro – semmai esacerba – la lucidità dello sguardo sulla realtà carceraria: attraverso i suoi schizzi Zehra Doğan ci porta oltre le mura, attraverso i corridoi, ci fa sbirciare le cucine, le latrine, i dormitori (“22 letti. Noi siamo 33! E il numero è in costante aumento. D’estate si soffoca, d’inverno si gela. Si fa a turno per dormire a terra”, p. 36); illumina la nostra consapevolezza sulla condizione dei detenuti malati, o sulle violenze esercitate dai secondini sulle minoranze di qualsiasi genere. Emerge chiara dalle parole e dagli schizzi l’importanza di una routine per non disperare, soprattutto nel caso di condanne che durano molti anni. Una cifra importante di questa resistenza interna (e interiore) è la condivisione, non solo materiale, ma soprattutto di esperienze ed emozioni. Ognuno porta infatti in cella la propria storia, e molte ci vengono riproposte dall’autrice.
La sua narrazione non è lineare, non solo perché ciò che deve essere raccontato è complesso e ha radici contorte e profondamente affondate nel passato, ma anche perché l’opera stessa nasce per assemblaggio di frammenti, di tavole disegnate su supporti provvisori e fatte uscire di nascosto.
Tra le molte tematiche che vengono affrontate, è soprattutto nel raccontare cosa succede nella “Prigione militare n. 5” negli anni ‘80 che la barbarie viene denunciata senza mezzi termini:
Qui vennero torturate migliaia di persone. A centinaia sono morte. Sono state violentate, hanno sputato nei loro piatti, gli hanno messo dentro insetti, le hanno costrette a mangiare le loro stesse feci. Scariche elettriche, stupro, bastonate, lacerazione delle piante dei piedi con lame di rasoio, tratto di corda, pendolo a testa in giù, rasatura della testa, isolamento totale… E poi, anche la tubercolosi ha fatto strage. (p. 59)
Nel 1980 la Prigione n. 5 diventa il luogo in cui vengono “piantati i semi dell’efferatezza destinati al popolo curdo” (p. 64) che hanno i loro strascichi anche nel presente, seppure con modalità differenti.
Lo spazio limitato del foglio costringe le figure in uno spazio ristretto, claustrofobico, dove si accatastano i corpi torturati, i rivoltosi e i militari incaricati della repressione violenta, le matasse di filo spinato e le fosse comuni. L’interferenza con le immagini che ci sono arrivate dai lager nazisti, come i disegni di Zoran Mušič realizzati nel 1945 a Dachau, non pare così fuori contesto guardando alla ferocia indifferente all’umano riportata nelle illustrazioni di Zehra Doğan. Lei stessa del resto cita numerosi autori che hanno testimoniato le brutalità inenarrabili avvenute tra le mura di quella stessa prigione, quelle terribili imposizioni che nell’ottica dei carcerieri “avrebbero elevato nei prigionieri la loro natura di esseri umani e fiaccato la loro identità” (p. 73) e che risultano familiari a chi abbia letto dichiarazioni relative alla realtà concentrazionaria. Anche nel carcere di Amed, nome curdo per indicare Diyarbakir, “tutte queste cose abiette e inimmaginabili erano diventate ordinarie” (p. 78). 
Bisogna che si sappia” (p. 76) è la frase che compendia l’obiettivo primario dell’opera di Zehra Doğan: bisogna che si sappiano i dettagli, gli orrori, che non siano fatti sconti ai torturatori; bisogna che chi legge resti sconvolto, attonito, in modo che nulla sia dimenticato e che si cerchi per quanto possibile di impedire che simili atrocità si perpetrino. Anche “se i tempi e i poteri sono cambiati, l’ostilità verso i curdi è rimasta immutata” (p. 86), ricorda Doğan ai suoi lettori, a cui si rivolge direttamente, utilizzando spesso la seconda persona plurale, in un’inclusione che diventa ulteriore forza per la scrittura (“siccome so che i miei disegni riusciranno a evadere e che un giorno arriveranno fino a voi, vado avanti”, p. 88); il suo è anche un appello accorato, perché la resistenza, interna ed esterna, non venga meno.
Non a caso il filo conduttore dell’opera è, visivamente e metaforicamente, quello spinato, che delimita i campi minati, fuoriesce come grida dalle gole dei torturati nelle illustrazioni durissime dell’autrice, circonda le carceri impedendo alle anime che vi sono rinchiuse di spiccare il volo, privandole della libertà. Le creature ibride, con corpi di donna e teste d’uccello, avvinte e straziate dalle punte acuminate diventano immagine dolorosa della sorte delle curde imprigionate e sofferenti nella Prigione n. 5. Anche una volta uscite, come avviene a Zehra, una parte di loro resterà sempre appesa a quel filo, alle sorti delle compagne che ancora ne sono vittime.
 
 Carolina Pernigo


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