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Una favola distopica che nasce dal nostro passato e soprattutto dal nostro presente: "Apriti, mare!" di Laura Pariani

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Apriti, mare!

di Laura Pariani
La Nave di Teseo, 25 febbraio 2021

234 pp.
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Scrivere distopie dopo la pandemia da coronavirus produce necessariamente risultati particolari. Si potrebbe quasi ipotizzare che sia un sottogenere della cosiddetta “letteratura di quarantena”, che annovera già numerose opere sotto la sua egida – con risultati altalenanti, peraltro. Tuttavia, la “Noterella” posta a fine del libro, in cui Laura Pariani riconosce l’influenza che la realtà ha esercitato su questo romanzo – la crisi migratoria prima, e la pandemia poi – arriva come un fulmine a ciel sereno. Perché la favola imbastita da Laura Pariani non prende la realtà e tenta di spiegarla attraverso la narrativa, come fa la letteratura pandemica, né ci vuole avvertire contro un futuro possibile, come fanno le distopie; Apriti, mare! vuole farci venire dubbi, vuole farci interrogare su quei lati dell’animo umano che crescendo impariamo ad accettare con troppa facilità, e lo fa nel modo più antico del mondo: la favola.

Ma di cosa parla, questa favola così contemporanea e allo stesso tempo così eterna? Nell’Italia e nel mondo come li conosciamo, un Incidente si abbatte sull’umanità, una malattia, un Soffio mortale che uccide chiunque abbia più di quindici anni. La società deve dunque ripartire da zero, e si crea una sorta di Medioevo dei bambini: dopo i primi anni di anarchia, simili a una specie di Il Signore delle Mosche nostrano, i bambini si riorganizzano in comunità. E la natura umana si rivela in questi bambini, immemori del tempo passato: forti gerarchie basate su una religione tirannica fanno sì che le bambine siano sottomesse ai bambini. Perché sono le bambine le vere protagoniste di questa favola. Costrette al lavoro e a sottomettersi alla “seconda fame” degli uomini, restano incinte e diventano “fattrici”, non madri, in quanto ormai la famiglia è stata dimenticata. Costrette al silenzio, non possono ridere, parlarsi, provare rabbia o desiderio. Pena l’accusa di essere streghe, “strìe”, e di essere “terminate”. Proprio come in un Medioevo dell’anima, scorre sottoterra il sentore che le donne abbiano poteri che gli uomini temono: il potere di volare, il potere di concedere grazie, il potere di leggere il futuro. Il potere di provare ancora affetto l’una verso l’altra, di raccontarsi storie, e di scappare dalle proprie prigioni per cercare il mare, come fa lo Sciame di bambine, intorno a cui ruota la storia.

L’atmosfera di fiaba si fonde su questi sentori medioevali, acuiti dalla tirannia di una religione apparentemente basata sul Cristianesimo, ma che in realtà accoglie dèi di ogni tipo come santi di un “Nossignòr” non meglio specificato. Nani, “umbriùn” e volpi parlanti si stratificano ai roghi di streghe e alle proclamazioni del “Libro”, e il lettore attento può accorgersi di certi richiami alle fiabe classiche anche prima che, nella “Noterella”, l’autrice riconosca il suo debito con le fiabe classiche: bambini che porgono la coda di un topo al posto del loro mignolo per non far vedere che sono ingrassati, pifferi incantati che guidano la fuga di una bambina dalla sua prigione, bambine che cercano il mare per non invecchiare mai… Eppure, c’è un autore in particolare che più di ogni altro informa questa raccolta, non solo per le ambientazioni italiane, tra boschi dell’Appennino e villaggi di montagna, ma anche per il sapore amaro: le celeberrime Fiabe Italiane di Italo Calvino. Pariani nella “Noterella” riconosce che «tali fiabe di origine arcaica minano infatti alla radice l’idea che la bontà sarà ricompensata e fanno intendere agli ascoltatori che sarebbe follia attendersi qualcosa che non sia crudele da un ordine sociale crudele» (p. 237). È proprio questo, infatti, il motivo per cui riconoscere la realtà dietro la fiaba è un ritorno alla realtà tanto brusco quanto necessario: in questo romanzo, i bambini combattono contro un nemico mai identificato ma forse proprio per questo imbattibile, un sistema che, al contrario di quanto accade nelle distopie classiche, non si può davvero sconfiggere. Il titanismo delle bambine non punta a cambiare la distopia, ma a salvare loro stesse, e nel far ciò, a salvarsi l’un l’altra, riportando amore e civiltà all’interno del loro piccolo Sciame. Solo il tempo potrà riportare civiltà in un mondo obbligato a ripartire da zero.

In tutto questo, il merito della costruzione fiabesca della Pariani non giace solo nella costruzione che si allontana dalle categorie proppiane per creare una polifonia di voci e un arco narrativo tutt’altro che concluso, ma, soprattutto, arriva all'apice nel linguaggio utilizzato. Se la “Noterella” finale ci riporta alla realtà con un brusco strattone, è anche perché Pariani, nello scrivere di quest’Italia post-apocalittica, usa un linguaggio che ci sprofonda in un’Europa priva di tempo e di spazio. Latinismi, francesismi, dialetti norditalici assortiti – con prevalenza del bergamasco – e perfino il canto a braccio dei pastori appenninici: così come ogni bambino si sceglie il nome, allo stesso modo, senza adulti e senza scuole, anche il linguaggio si fa selvaggio, e ripartendo dalle categorie innate dell’essere umano sembra parlare dal nucleo più intrinseco della coscienza. Un linguaggio nuovo per un mondo nuovo, che solo alla fine, scoprendo la vera chiave di lettura del romanzo, si rivela come assai più vicino a noi di quanto sembri, non solo perché fa parte della nostra storia e della nostra cultura congiunta di italiani, ma anche perché ci dice qualcosa su di noi, su come saremmo se non fossimo nati nella struttura caratteristica della nostra società. Che noi siamo abituati a dare per scontata: ma basterebbe guardare fuori dalla finestra, guardare bambini dell’età dei nostri figli che annegano nel Mediterraneo, o ritrovarsi chiusi in casa per un anno per colpa di una pandemia arrivata all’improvviso, per capire che ogni struttura, la società, la cultura, il linguaggio, è immensamente variabile. E noi, che a quelle strutture dobbiamo tutto ciò che siamo, siamo altrettanto variabili. Anche se non ce ne accorgiamo.

Marta Olivi