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Ossessionata dalla bellezza: "Jezabel" di Irène Némirovsky

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Jezabel
di Irène Némirovsky
Adelphi, 2007

pp. 194
€ 10,00

Titolo originale: Jézabel (1936)
Traduzione di Laura Frausin Guarino

Nella gabbia degli imputati, Gladys Eysenach attende il verdetto. È pallida, stravolta dalla fatica e dalla paura, ma è ancora bella. La notte di Natale del 1934, nella sua stanza da letto, ha ucciso quello che si presume essere il suo giovane amante. Bernard Martin aveva vent'anni e nessuno, nella cerchia di conoscenze della donna, ha mai sentito parlare di lui, eppure nessuno appare stupito: Gladys è famosa per le sue relazioni e il suo spirito libero. Nonostante abbia un compagno fisso da anni, il conte Monti, i mormorii che la circondano non si sono attenuati, né la sua fama di frequentatrice di postriboli. L'avvocato dell'accusa, di fronte alla giuria, si accanisce su di lei smontando le sue risposte vaghe e le incongruenze del suo ragionamento pezzo dopo pezzo, attaccandola con una precisione che rasenta la crudeltà: 
Non è stata invece questa donna, forte della sua bellezza, della sua ricchezza, del suo prestigio mondano, questa donna che vedete davanti a voi, signori giurati, ad attirare il giovane nella sua rete per corromperlo prima di ucciderlo? Queste cortigiane del gran mondo possono essere più pericolose delle altre perché sono più belle e più raffinate! Smascheriamo l'ipocrisia che consiste nell'esaltare queste etere eleganti e nel riservare tutto il nostro disprezzo alle umili praticanti dell'amore venale! Quelle di cui parlo, le varie Gladys Eysenach, vogliono l'anima dei loro amanti, e la vita! (p. 23)
Di fronte a una folla meschina e pettegola, attratta solo dalla curiosità perversa dello scandalo, l'intera vita di Gladys viene passata in rassegna. Il lettore inizia a cercare dei punti fissi per inquadrare il personaggio, ma si rende subito conto che la cronologia non torna: al puzzle manca qualche tassello fondamentale per completare il quadro, ci sono tanti elementi di distrazione che si perde di vista quell'elemento incongruo che ancora non si riesce a definire. Mentre il processo prosegue inesorabile, mentre si dispiega l'ipocrisia dei falsi amici pronti a tradire e spargere fango, "il volto dell'imputata apparve improvvisamente tragico, senza età: i lineamenti erano immobili, la vita tutta rifugiata negli occhi allucinati, belli e profondi" (p. 24); in altri momenti, invece, quando viene citato qualche dettaglio che non abbiamo ancora le chiavi per interpretare, "sul suo bel viso devastato appariva quell'espressione scaltra e crudele che è propria di una maschera criminale" (p. 41). Con la consueta abilità, Irène Némirovsky ci impedisce di schierarci, di prendere una posizione immediata e definitiva: ancora non sappiamo dove si nasconda la verità, sospettiamo qualcosa di più di quel che viene detto. Di fronte alla giuria, Gladys ammette la propria colpa e chiede una condanna rapida, purché l'umiliazione pubblica finisca, e così di fatto avviene. È solo attraverso un lungo flashback che si scopre come siano andati realmente i fatti. Con un balzo temporale considerevole, l'autrice ci riporta indietro nel tempo, a una giovanissima Gladys che, con un vestito bianco e un mazzolino di roselline rosse alla cintura, splende raggiante al suo primo ballo. In base alla caratterizzazione della protagonista, il pubblico non è certo portato ad avere simpatia per lei: come tutti quei personaggi femminili in cui la Némirovsky proietta la figura della propria stessa madre (si veda ad esempio ne La nemica, qui la recensione), anche Gladys è immatura ed egoista, gioca con i sentimenti altrui per sentirsi potente: “proprio questo la eccitava: provare costantemente a se stessa il suo dominio sugli uomini" (p. 61). Ossessionata fino alla patologia dalla paura di invecchiare, la donna cerca continue conferme nello sguardo degli altri e rischia di sgretolarsi le rare volte in cui non le trova (è il caso di Claude, che – unico – resisterà al suo fascino dopo essere stato da lei ferito, o della figlia Marie-Thérèse, che lei si ostina a considerare una bambina per rinnegare il passare del tempo).  Il terrore claustrofobico e angoscioso dell'età che avanza, della giovinezza che scema insieme alla possibilità di essere sempre protagonista, sempre al centro dell'attenzione, spingono Gladys ad atteggiamenti che sconvolgono tanto per la loro aberrazione, quanto per l'assoluta mancanza di consapevolezza con cui la donna li assume. Con il passare degli anni, lei è sempre più prigioniera di se stessa e di una fragilità che non si può giustificare né perdonare. L’autrice scava profondamente, impietosamente nella sua intimità:
Come tutte le passioni, anche quest'anno le dava pace. Nemmeno per un attimo. L'avaro non pensa ad altro che al suo oro, l'ambizioso agli onori: al pari di loro Gladys era totalmente posseduta dal desiderio di piacere e dall'ossessione dell'età. (p. 137)
Eppure, nel suo ricercare ostinatamente svaghi e corteggiatori, non si percepisce più leggerezza, ma "una fuga tragica davanti al passato" (p. 138). È impossibile addentrarsi maggiormente nella trama senza svelare il mistero che giace al centro della narrazione e che solo la lettura può svelare pagina dopo pagina. Si può osservare però che, grazie alla delicatezza descrittiva di Némirovsky, alla sua maestria nel continuare a cambiare prospettive e punti di vista (non si sottolineerà mai abbastanza l'uso straordinario della focalizzazione interna in tutti i suoi romanzi), poco alla volta, il disgusto del lettore si avvicina alla compassione. Di quella che era Gladys ai tempi d'oro, a distanza di tempo non resta che una patina superficiale (totalmente artificiale, tenuta insieme dal trucco e i busti, mascherata da gioielli e abiti sfarzosi); da figura elegante e raffinata, la donna si ritrova a essere figura grottesca e patetica per la società in cui vive (come il processo rivela, tutte le crepe erano state accuratamente notate e registrate), ma tragica per la sua percezione di una inarrestabile decadenza:
Vi era in Gladys una tragica impossibilità di soccombere. Gli altri vedevano in lei solo una donna senza età, come tutte quelle che a Parigi hanno superato la quarantina. Sotto le luci, con il suo maquillage e i suoi gioielli, appariva bella di una bellezza fragile, inquieta e patetica, e all'alba, sulla soglia del locale, sembrava una vecchia in maschera, come le altre... di tutti i suoi sforzi, di tutte le sue fatiche, di tante lotte, tante angosce e tanti trionfi non restava che la domanda indifferente posta da un giovanotto a un altro mentre metteva in moto l'automobile: "Gladys Eysenach?... È ancora bella… Dici che ci sta?" (p. 186).
Come Dorian Gray, Gladys mantiene una apparenza di perfezione e leggiadria, di purezza e splendore esteriori, ma tutto l'orrore del tempo che passa lascia un segno indelebile. La sua condanna però è peggiore di quella di Dorian, poiché il marciume lei se lo porta dentro, se ne lascia corrodere, permette che sovverta tutti i valori: 
una vita in cui nessuno ti ama, nessuno ti desidera, una vita spenta, gelida, una vita da vecchia, insomma, ai miei occhi è peggio della morte! (p. 192) 
È chiaro che, date tali premesse, il finale non può che essere in linea con la statura drammatica del personaggio. Jezabel, il cui titolo rimanda ad una donna celebre per la sua lussuria, non è il migliore tra i romanzi della Némirovsky: riesce però, con una voluta ridondanza stilistica e contenutistica, a rendere le pieghe intime di un'ossessione che si fa malattia e che si insinua angosciosamente nel cuore del lettore (o, forse maggiormente, della lettrice), suscitando reazioni emotive che non possono essere aggirate.

Carolina Pernigo



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