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#CritiCOMICS Il dritto e il rovescio della vita tra un’ace e uno smash

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Max Winson
di Jérémie Moreau

Traduzione di Francesco Savino
Bao Publishing, 2016
328 pp., 23€

La tradizione fumettistica vuole che determinati generi siano identificati rigidamente solo con specifici scrittori o territori; come il genere supereroistico sembra appannaggio esclusivo delle pubblicazioni americane Marvel e DC, così le storie di sport hanno alimentato le letture dei giovani appassionati di spokon, genere di manga che racconta storie di fatiche e agonismo sportivo e passato alla storia con Captain Tsubasa (Holly & Benji) o Slam Dunk. Max Winson riesce a sorprendere, capovolgendo questi luoghi comuni e proponendo una storia di sport alla giapponese ma con il piglio narrativo e psicologico caratteristici di molti dei testi mitteleuropei e presentandoli in un amalgama che, seppur a tratti risulti mal miscelato, riesce a catturare il lettore fino all’ultima tavola.

La storia di Max Winson, il tennista più forte del mondo, si divide in due macro blocchi narrativi: nel primo Max affronta i demoni della sua vita di sportivo, primo tra tutti il padre dispotico che ha gestito la sua vita schedulandone ogni impegno per il raggiungimento della gloria sportiva. Il giovane non ha mai sbagliato un tiro, ogni sua battuta risultava un perfetto connubio di tecnica e genialità e alle spalle aveva il maggior numero di partite mai vinte nella storia del tennis.
Nella seconda parte del graphic novel Jérémie Moreau tratteggia un nuovo Max Winson: insicuro e instabile, è alle prese con un nuovo istruttore dalle bizzarre sedute di training; decidendo di appendere la racchetta al chiodo, si ritira in una campagna sperduta dell’entroterra americano con l’obiettivo manifesto di straniarsi da un’esistenza fino a quel momento meccanizzata.

A livello metaforico le due sezioni della storia sembrano mimare una partita di tennis dall’esito improvvisamente ribaltato: nella prima parte si assiste a uno scambio a senso unico, dove solo uno tra i due giocatori risulta vincitore e l’altro, inevitabilmente, perdente non solo sul campo ma in tutta la sua vita, in una dimensione di mortifera esistenza; la seconda parte, invece, inscena una delle più belle azioni sportive che un atleta possa sognare, con un cambio di rotta repentino: tra una battuta una volèe, le sorti dell’incontro vengono ribaltate verso una vittoria di “vita” inaspettata. Una sorta di climax catartico (che, a dire la verità, salva una sceneggiatura a tratti fallace ed approssimativa) verso un vortice di lettura onnivora e agitata.


Così come Open (il cui eco si sente forte sullo fondo anche se, ritengo, più nella figura sportiva dell’atleta tormentato Agassi che non nel caso editoriale del libro di J. R. Moehringer) era riuscito a incollare anche i digiuni di tennis tra le pagine di una biografia trasformata in romanzo universale di formazione, anche Max Winson risucchia l’attenzione di chi, come me, non mastica nemmeno una briciola di tennis.

Perché se, infatti, la lettura risulta godibile grazie a tavole dai ritmi incalzanti, tagliate al punto giusto (come la migliore tradizione giapponese), con la scelta di fare giganteggiare l’immagine dell’atleta oltre i bordi delle vignette quasi a voler mimare la sua (acquisita) grandezza d’animo, è anche vero che la storia non si limita a raccontare esclusivamente un percorso atletico. Il dramma di un dualismo psicologico di matrice tipicamente occidentale fa capolino tra disegni tratteggiati in maniera  onirica e la lotta contro un anniversario di (non) pari grado si concretizza, infine, nella parabola del significato dello sport.

Praticare una disciplina a livello agonistico significa lottare contro limiti fisici e psicologici. Dirlo sembra una banalità, ma nell’era degli scandali sportivi legati all’uso delle sostanze dopanti si è perso di vista il fatto che la battaglia più grande da combattere è quella contro la propria individualità. 

Facile, allora, descrivere la dinamica dell’allenamento o della gara? Non del tutto.



Grazie a Max Winson si gettano le basi per una diversa educazione sportiva. Non è sufficiente lottare contro i propri demoni interiori; il passo più importante e fondamentale da fare è quello di tirarli fuori, tutti questi demoni, metterli alla berlina degli altri e fare in modo che dialoghino con i demoni tirati fuori a loro volta dagli avversari. Il rischio, nel caso si scelga di educare alla fatica solo il proprio corpo o la propria mente, è infatti quello di chiudersi in una dolorosa solitudine. Che non fa aprire gli occhi sulla bellezza della gara. 

Che non premette di godere di tutti i dritti e i rovesci che nella dimensione esistenziale esistono.


Federica Privitera

Immagini riprodotte per autorizzazione della casa editrice