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#CritiCINEMA - L'ultimo fotogramma di Francesco Rosi

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Io lo chiamo cinematografo
di Francesco Rosi

conversazione con Giuseppe Tornatore

Mondadori, 2014


Si spegne a novantadue anni Francesco Rosi, un grande regista, un maestro. Uno che il cinema l'aveva preso sul serio, come un mezzo per cambiare le cose, per contribuire alla presa di coscienza collettiva. Un modo di fare cinema militante, critico, scomodo, ma sempre basato su una minuziosa ricerca e documentazione, sulla voglia di approfondire e fare chiarezza. Come quando aveva deciso di raccontare la strage di Portella della Ginestra e quell'intreccio di mafia e banditismo in Salvatore Giuliano (1962), inaugurando il filone del film-inchiesta; o quando con Le mani sulla città (1963) aveva denunciato il dilagare della speculazione edilizia nella sua città, Napoli; o ancora quando aveva indagato nelle piaghe dell'Italia del dopoguerra per Il caso Mattei (1972). 

Giuseppe Tornatore gli aveva da poco dedicato un libro-intervista, edito Mondadori: Io lo chiamo cinematografo (2014), in cui raccontava gli esordi come sceneggiatore e aiuto-regista per Visconti e ripercorreva un percorso professionale entusiasmante e appassionato, culminato con il conferimento del Leone d'oro alla carriera in occasione della 69° Mostra del Cinema di Venezia, nel 2012.


«Tutto iniziò, forse, con una fotografia» scattata dal padre Sebastiano, appassionato di disegno e cinema, che lo portò a vedere Il monello di Charlie Chaplin; e poi gli anni universitari, studente di giurisprudenza con la passione per i film musicali di Ginger Roger e Fred Astaire e per i western di John Ford, l'amicizia con Raffaele La Capria e con Patroni Griffi, la militanza antifascista, il trasferimento da Napoli a Roma. Un racconto che si dipana per aneddoti, per frammenti privati in una chiacchierata intima e incalzante, con un Tornatore curioso nella parte dell'intervistatore che lo pungola, per farsi consegnare degli splendidi ritratti di - fra gli altri - Luchino Visconti e Gian Maria Volonté.

In un intervista per Repubblica del 2012, al giornalista Antonio Gnoli che gli chiedeva se avesse voglia di fare un nuovo film, Rosi rispondeva:

«Ogni tanto penso a quelli che non ho realizzato. E li ritrovo lì, appesi alla mia malinconia. Mi verrebbe voglia di scuoterli. Di riappassionarmi ai progetti. Ma i miei novant’anni rendono tutto più problematico. […] Io sto sfiorando una soglia, oltre la quale c’è solo la morte. E le confesso che per la morte provo solo disgusto. Non mi piace. È una stronzata dirlo, perché non piace a nessuno. Però, mi accorgo che tutti i miei film hanno toccato il problema della morte. C’è una punta di metafisica in questo. Quanto alla morte concreta non è che ne ho paura. Ma non mi ci vedo. È come un fotogramma in cui non vorrei esserci. E allora mi illudo di fermare il tempo».
Oggi Francesco Rosi è arrivato al suo fotogramma fatidico. Ma sono tutti gli altri, i fotogrammi che contano per noi, che ci consegnano un'idea di cinema e di autorialità alta, impegnata, seria. Quella che soltanto un grande maestro può creare.  

Giulia Marziali