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Una danse macabre sotto il sole di Sicilia

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Diceria dell'untore
di Gesualdo Bufalino

I ed. 1981
Sellerio editore Palermo, 2009
O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi… Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza a svegliarmi...
Un incipit che sembra continuare un discorso già iniziato altrove. Chi parla, "Colui che dice io" (così nella splendida riduzione teatrale di Vincenzo Pirrotta con Luigi Lo Cascio), non ha nome: è giovane reduce di guerra, malato di tisi e rinchiuso, per questo, in un lazzaretto vicino Palermo, in attesa della guarigione o della, più probabile, morte.
Nel 1946, in un sanatorio della Conca d'oro - castello d'Atlante e campo di sterminio - alcuni singolari personaggi, reduci dalla guerra, e presumibilmente inguaribili, duellano debolmente con se stessi e con gli altri, in attesa della morte. Lunghi duelli di gesti e parole; di parole soprattutto: febbricitanti, tenere, barocche - a gara con il barocco di una terra che ama l'iperbole e l'eccesso. 
Leonardo Sciascia non avrebbe potuto descrivere meglio, in quarta di copertina, la trama e l'idea di fondo di un romanzo che è barocco nella sua più intima essenza, e di un barocco annegato di sole, un barocco peculiarmente siciliano.

Bufalino è un narratore scaltro e amabile nella sua scaltrezza. Dispone simboli e, al contempo, dissemina chiavi di lettura di questi simboli lungo tutto il tracciato della narrazione. Sin dal titolo, dall'inconfondibile patina anticata: Diceria dell'untore. Delle note in epigrafe spiegano la natura del titolo: Diceria è, secondo il dizionario ottocentesco Tommaseo-Bellini (consultabile on-line qui), un "discorso per lo più non breve, detto di viva voce; poi anche scritto e stampato", ma anche "qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte", "il troppo discorrere intorno a persona o cosa". Una definizione che ci offre moltissimi indizi: sopra ogni cosa, la concezione dello scrivere, del dire, come atto di mistificazione e artificio, la creazione di un mondo altro, fatto di illusioni e ombre. Sostanza di queste illusioni: l'inchiostro, materia prima del romanziere, e il sangue, frutto e sintomo della malattia. Nell'atto creativo della finzione, "diceria" in forma di confessione falsificata, è possibile per Bufalino rintracciare un'ultima e unica non-verità. Il mistero, ribadito lungo le eleganti pagine del romanzo, ha forma di una partita a scacchi, di un melodramma di figurine imbellettate, del grido straziato verso un Dio nascosto.

La diceria è però qualcosa di più: è diceria di un Untore. Per definizione, l'Untore è l'uomo-dèmone che infetta gli innocenti: idea capace di risvegliare, nella memoria del lettore, un immaginario tra il barocco e il manzoniano fatto di monatti, peste bubbonica e fetore per le strade. Nel mondo di Bufalino, essere untori significa portare con sé il vero mistero, legato alla malattia e alla morte. L'untore, colui-che-dice-Io, dopo aver, si può dire, "vissuto la morte" negli altri e nel proprio corpo, è destinato a una fortuna che suona come uno smacco. Esonero dalla morte e dall'illusione, in questa, di essere eroe.

Questo diventa la diceria, in bocca all'untore. Poteva essere "obolo di riserva" da pagare in riva allo Stige, ma diventa qualcosa di più: "testimonianza, se non delazione, d'una retorica e d'una pietà". Ecco il ricordo - di radice autobiografica - che si fa letteratura.

In questa grandiosa, cesellatissima opera prima che si può a ben diritto chiamare capolavoro (di gestazione, tra alti e bassi, trentennale, e che valse all'autore un meritatissimo Premio Campiello), la narrativa bufaliniana si getta in una danse macabre che assume, tuttavia, le sensuali movenze di un tango. La danza coinvolge tutti i personaggi, specialmente i tre protagonisti di un patetico triangolo, una partita a scacchi in cui il "sacrificio di Regina" è già scontato sin dall'inizio: colui-che-dice-Io; Marta, misteriosa ex-ballerina dal passato sepolto sotto favole di sangue e cipria; e, infine, il Gran Magro, figura a suo modo romantica, titanica e blasfema nella sua solitaria grandezza.

La Morte è, per l'uomo comune, idea da esorcizzare; ma per colui che vive sulla Rocca, rinchiuso in un non-mondo che è già limbo, porta di Dite, la Morte diventa oggetto del desiderio. L'horror vacui si intreccia a un perverso amor vacui, di più, a una vera e propria cupiditas vacui.

Lei era la meridiana che disegnava sul soffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio; lei, la tagliuola che mi mordeva il calcagno; il mare di foglie che il sole tramuta in brulichìo di marenghi; lei, la buca d'obice, l'in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca.

Sembrerebbe la descrizione del fantasma della donna amata, e invece è un ritratto della Morte.
Luigi Lo Cascio (Colui che dice Io) e Vincenzo Pirrotta (Gran Magro) in una scena di Diceria dell'untore (2009, regia di V. Pirrotta)

L. Ingallinella