Studio privato
Il nuovo romanzo di Violetta Bellocchio è la frammentazione stessa dell'io della protagonista (l'autrice). Non c'è una narrazione lineare, ma è un monologo interiore e intimo volto a criticare da un lato, spesso con brillante sarcasmo, il sistema sanitario e la società odierna, dall'altro a far emergere con profonda analisi e sincerità un tabù reale, ma di cui non ci prendiamo minimamente cura. Questo perché il tema centrale dell'opera è proprio la salute mentale e la sua accoglienza. L'autrice, sotto forma di io narrante, si domanda come sia possibile che una persona possa allo stesso tempo essere vista come pazza e come professionista competente, in grado di offrire ai suoi facoltosi clienti un efficiente supporto terapeutico (naturalmente, senza fattura). Il nodo alla gola di Bellocchio è questo: l'essere percepiti dal "sistema" come scomodi, come inaffidabili, quasi perturbanti. Ma allo stesso tempo allora, l'autrice s'interroga su come un professionista della sanità mentale possa giudicare una pazienta vista per dieci minuti e sedarla superficialmente con ansiolitici. Essere presi sul serio, specie per una donna, al giorno d'oggi non è cosa facile, nemmeno se si vive a Milano. Il pregiudizio è sempre pronto a fare il suo mestiere, senza risparmi o sconti.
L'aspetto che colpisce fin dall'incipit è che è quasi un diario, un confessore, un custode della sua anima e delle sue memorie di trentenne. Mettersi a nudo in questo modo e con questa aderenza alla realtà seppure vagando di frammento in frammento, è sorprendente. Ogni singolo aspetto dell'esistenza viene smantellato e messo sotto una lente d'ingrandimento, pronto a essere finalmente visto da noi fortunati lettori che abbiamo la voglia di andare oltre al muro delle apparenze.
Ci sono due o tre gesti quotidiani, i famosi momenti privati, che ripeto una volta al giorno davanti allo specchio di un bagno qualsiasi, come quello dell'appartamento dei miei genitori in una città che non esiste più - lavarmi i denti, toccarmi i denti davanti con la lingua; passarmi un pettine di legno tra i capelli, sbrogliare la matassa sulla nuca; mordere e lasciar andare la cicatrice bianca nell'angolo interno destro del labbro inferiore - e ci sono momenti privati che non ripeto da un numero di anni sufficiente a esaminarli con il giusto distacco, come, ad esempio, tirarmi una sberla sulla bocca allo specchio dello stesso bagno a metà mattina. (p. 7)
I veri protagonisti di questa narrazione sono gli stati d'animo. Calarsi nei panni della protagonista l'ho trovato facile e confortante. Non ci si sente soli a leggere quest'opera, ma ci si sente umani e liberi. Liberi di essere imperfetti, sbagliati, fragili. Ma liberi.
Ricordo le ore passate sotto il getto d'acqua di una doccia calda. Ricordo di aver avuto freddo, sempre, molto a lungo. Ricordo una stanchezza aberrante che andava e veniva, dovevo stare sdraiata sul divano, quieta, con una coperta addosso. Ricordo di non aver sempre avuto la motivazione necessaria a togliermi il cappotto rientrando in casa. Ricordo di aver avuto tanto freddo da sedermi a cavalcioni su un calorifero del soggiorno, chiedendomi se con questa avevamo toccato il fondo. […] Ricordo poco se non l'essere rimasta in piedi sotto l'acqua calda due volte al giorno. E mi dispiaceva dover uscire dal box, staccare le mani dalla parete e chiudere il rubinetto, ma dovevo. (p. 197)
In questo libro dalla scrittura circolare il dolore e la solitudine sono il perno su cui ruotano le paure e in fondo anche le speranze dell'autrice. Come se Bellocchio parlasse alla se stessa trentenne e insieme guardassero uno specchio rotto, ma aggiustabile. Non si possono aggiustare i ricordi, non si possono cambiare le persone, ma a volte un gesto di gentilezza può far sentire l'altro meno solo. In un qualche modo ho colto un parallelismo con il romanzo di Ripetizione di Vigdis Hjorth. Infatti la ripetizione del dolore anche qui si ripete ciclicamente, anche se qui si scava più a fondo sulla natura della condizione di salute mentale, mentre nel romanzo di Hjorth si affronta più il tema della memoria. In ogni caso, entrambe le narratrici ci offrono un potente strumento di lettura della nostra anima.
Milano, già precedentemente menzionata, non è soltanto di contorno al racconto, ma è anche parte di esso, in quanto sembra che essa stessa goda di una propria personalità sempre in fermento e sempre giudicante. L'autrice la descrive come una città che si estende in orizzontale, come una griglia di ferro e acciaio. Una sorta di gabbia contenitiva, a mio avviso. La città ci vuole performanti, brillanti, capaci, attenti, sempre sul pezzo. Ma è importante non far troppo, altrimenti il nostro benessere ne risentirà. Vien da chiedersi: ma ci è o ci fa la nostra città? Questi interminabili quesiti che rimangono sospesi nella mente del lettore non hanno una risposta né univoca né tantomeno giusta. L'intera opera ha un suo lirismo profondo, quasi filosofico. Sembra di entrare nel palcoscenico dei propri turbamenti e buttare via la chiave. Vale la pena vivere in una società che dice di volerci in salute, ma che se stiamo male ci respinge come un rifiuto "tossico"? Vale la pena essere sempre performanti se dentro urliamo dal dolore e vorremo soltanto affogare nel fango per non sentire più nulla? Nella narrazione se lo domandano anche altre donne, tutte accomunate dallo stesso problema: essere ascoltate e accettate per quello che sono.
Alla fine ne veniamo fuori tutti. Ma da lì non ti tira fuori nessuno, Debra ha dovuto litigare - lasciatemi uscire adesso, oppure chiamo la polizia e faccio causa - per venire dimessa da una struttura privata dove al posto del metadone ai clienti eroinomani davano manciate di tranquillanti […]. Cristina con il kaiju verde e azzurro tatuato sulla schiena ha dovuto squarciarsi un polso con una forbice da giardino arrugginita, in strada davanti a tutti, per farsi dire a grandi linee cosa forse poteva avere dai tre specialisti che se la stavano rimpallando tra di loro zitti zitti nella stessa città universitaria. […] Anna Rea al pronto soccorso ci è andata una notte (le era montata la rabbia, e la pressione, quando aveva scoperto che il fidanzato puttaniere manteneva tutto un albero genealogico di altre donne), il mattino presto l'hanno lasciata uscire, e il personale di turno le ha detto perché la stavano lasciando uscire […]. Beh, nemmeno il tempo di tornare e mettere due magliette in un borsone e il suo fidanzato aveva già telefonato a tutta la famiglia, suo padre sua madre suo fratello, e aveva detto che Anna Rea era pazza e si inventava le cose, tanto che era finita in Psichiatria. A chi dovevano credere? Tra di noi, a un certo punto, ci siamo conosciute tutte. (pp. 12-13)
Questo binomio paradossale tra il bisogno di cure e il doversi mostrare sempre perfetti è spesso tragicomico. Il filtro della gente è più concentrato su quanti followers ha su un social, piuttosto che guardare chi le sta di fronte e viene stuprato dalla nostra ignoranza. Non si ride leggendo, ma si ammicca alla società tanto frivola che ci caratterizza. L'autrice riesce con naturale autenticità a far immergere il lettore in quello che a occhi inesperti può sembrare un delirio verbale. Ma se ci si riesce a togliere la polvere dagli occhi, questa lettura offre spunti di riflessione talmente penetranti da schiacciarci, ma in senso positivo. A volte è importante farsi sopraffare dal turbinio di emozioni che ci sovrasta. Anche se non le capiamo e anche se cerchiamo di evitarle. Dobbiamo invece abbracciarle e farle sentire ben volute. Solo così, ci prenderemo davvero cura di noi stessi e della nostra preziosissima salute mentale. Vi invito ad abbracciare questa lettura: ne uscirete più consapevoli, e il vostro specchio non sarà più rotto.
Carlotta Lini
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