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Il diritto internazionale non esiste più. Il diritto internazionale è morto sotto le macerie di Gaza, del Libano e dell’Iran. E Israele non è mai stato sanzionato.Domani, qualsiasi stato potrà aggredire il suo vicino senza doverne rispondere a nessuna autorità. È la legge della forza. Il più forte avrà ragione.La legge della giungla, che la cultura e la civiltà hanno cercato di lasciare agli animali che lottano per la sopravvivenza, è tornata. (p. 107)
Cominciare da una citazione potrebbe sembrare una scelta retorica. Ma nel caso di L’anima perduta di Israele, ultimo pamphlet dello scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun, la citazione tratta dalle Conclusioni - qui riportata in apertura- non ha solo funzione esemplare: è una dichiarazione di tono e di intenti. L’autore non edulcora, rifiuta ogni diplomazia verbale, non si nasconde. Ben Jelloun, uno degli scrittori più tradotti al mondo, come pochi nel panorama intellettuale europeo, ha scelto di non restare in silenzio davanti alla crisi morale e politica che sta divorando il Medio Oriente e, con esso, le fondamenta stesse del diritto internazionale. È un libro destinato a suscitare reazioni forti.
In L’anima perduta di Israele, Tahar Ben Jelloun smaschera con lucidità disarmante le derive morali di una democrazia che ha progressivamente perso sé stessa. Il bersaglio polemico, sebbene non esclusivo, è il premier israeliano Benjamin Netanyahu, figura emblematica di una classe politica che – secondo l’autore – ha piegato le istituzioni agli interessi personali. Il premier israeliano incarna lo svuotamento morale di una democrazia che ha trasformato la difesa in dominio, la sicurezza in propaganda, la legalità in arbitrio.
Netanyahu è perseguito nel suo paese per una serie di reati: è stato accusato di frode, violazione della fiducia e corruzione […] Finché conduce una guerra contro Hamas, ritarda il momento in cui dovrà comparire davanti ai tribunali del suo paese. (p. 12)
Ben Jelloun non si limita a una denuncia circoscritta, ma mette in discussione il cortocircuito tra legittimità democratica e occupazione, tra difesa della sicurezza e propaganda. La guerra, in questa visione, diventa non più l’estrema ratio dello Stato, ma lo strumento di un potere che confonde deliberatamente strategia militare e sopravvivenza politica personale. La legittimità elettorale non basta più a garantire la democrazia, quando le istituzioni sono piegate alla logica del nemico permanente. In questo contesto il massacro a Gaza non appare come una risposta militare, ma come un progetto di annientamento. Lo si dica chiaramente, insiste Ben Jelloun, a Gaza è in atto un genocidio.
Il rischio, ovviamente, è che la denuncia politica venga recepita come posizione ideologica, ma il testo si guarda bene dal cedere a semplificazioni manichee: Ben Jelloun non si limita a criticare lo Stato di Israele, ma allarga lo sguardo al sistema di complicità e silenzi che accompagna questa degenerazione. Il giudizio, durissimo, colpisce anche l’Europa, in particolare, la Francia, paese di adozione dell’autore, che viene chiamata in causa per l’autocensura del suo ambiente editoriale: «Questo testo viene pubblicato solo in Italia. In Francia avrei difficoltà a trovare un editore» (p. 13) afferma lo scrittore senza mezzi termini, segnalando un clima culturale dove la libertà di parola si scontra contro le paure di strumentalizzazione.
Il dato è rivelatore: in una stagione in cui la libertà di espressione viene formalmente garantita, ma spesso condizionata da tabù profondi, la voce di un intellettuale musulmano, per di più non allineato, può risultare scomoda. Il pamphlet diventa così anche un atto di denuncia metalinguistica: non solo contro la violenza armata, ma contro quella - più sottile - delle parole impronunciabili. Da questo punto di vista, che il libro sia pubblicato in Italia e non altrove, non è un dettaglio editoriale: è un segnale politico. L’Italia si conferma, almeno in questo frangente, uno spazio ancora permeabile al confronto critico, capace di accogliere un testo che altrove sarebbe stato probabilmente silenziato o travisato.
Ben Jelloun ha infatti scritto articoli anche per testate italiane come «Repubblica», «Il Corriere della Sera» e non è nuovo a opere che intrecciano riflessione politica, denuncia morale e tensione civile. Basta guardare a titoli come Il razzismo spiegato a mia figlia, grande esempio di impegno pedagogico e civile, in cui l’autore affronta la questione del razzismo strutturale in Europa con tono diretto idealmente a una giovane generazione in cerca di risposte. Ancora: l’Islam spiegato ai nostri figli, edito più volte con aggiornamenti importanti, offre una lettura accessibile della religione musulmana, smontando stereotipi e pregiudizi diffusi in Occidente, soprattutto dopo l’11 settembre.
Un’ultima considerazione, assolutamente importante, va aggiunta. Per quei lettori pronti ad accusare ogni voce critica verso Israele di tacere sulle responsabilità di Hamas, il libro risponde con chiarezza: non c’è alcuna indulgenza verso il movimento islamista, che Ben Jelloun definisce senza ambiguità come un attore violento, responsabile di crimini e corresponsabile dell’escalation. L’autore mantiene una posizione lucidamente equidistante, poiché critica il potere ovunque si eserciti contro i civili, senza arretrare di fronte a nessuna verità scomoda. In un passaggio illuminante l’autore non esita a definire l’odio di entrambi le parti come carburante delle ostilità e della violenza:
La forza motrice essenziale delle rappresaglie israeliane contro gli abitanti di Gaza sembra essere l’odio. Anche l’ideologia di Hamas si basa sull’odio, l’odio per l’occupante, per gli ebrei responsabili dei blocchi che mantengono gli abitanti di Gaza in una situazione insostenibile che precede ampiamente la tragedia del 7 ottobre 2023.Entrambe le parti sono dunque guidate dallo stesso odio. Solo che Israele ha i mezzi per esprimerlo, attraverso bombardamenti sistematici, mentre Hamas nutre “un odio da poveri”. (pp. 75-76)
Ormai ci sono manifestazioni sia in Palestina che in Israele.Non tutti gli abitanti di Gaza – i sopravvissuti – sono necessariamente con Hamas.Non tutti gli israeliani approvano la politica di “pulizia etnica” di Netanyahu. (p. 61)
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