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L'altro Simenon, quello più autentico: "La morte di Auguste"

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La morte di Auguste
di Georges Simenon
Adelphi, 2025

Traduzione di Laura Frausin Guarino

pp. 155
€ 18,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


Si chiama La morte di Auguste, ma non aspettiamoci indagini, alibi o testimoni. Il romanzo appartiene a quelli che l'autore definiva i "romanzi duri", non gialli e meno commerciali, che rappresentavano per Simenon il luogo autentico della sua scrittura, quello in cui la sua prosa scarna descrive in modo superbo la condizione umana e riesce a sondare la psicologia dei personaggi con pochi ed efficaci tratti di penna.
Ci troviamo in un ristorante di rue de la Grande-Truanderie, nel "ventre di Parigi", gestito dal vecchio Auguste, che è riuscito con sacrifici e dedizione a trasformarlo da piccolo bistrot a ristorante dalla clientela importante, e dal figlio Antoine, l'unico dei figli ad avere avuto interesse per l'attività di famiglia.
Tutto andava bene. Tutto filava liscio. Erano le nove e mezzo e a qualche tavolo avevano già chiesto il conto. Auguste aveva preso, staccandola dalla parete, una fotografia ingiallita del bistrot com'era nel 1920, con lui stesso al bancone, in maniche di camicia, e sua moglie un po' defilata. La mostrava a due clienti della provincia che avevano fatto molto onore alla cena e ai quali aveva appena offerto, personalmente, un cicchetto, nella fattispecie un'acquavite di Borgogna invecchiata. Ne aveva bevuto un bicchierino anche lui, ovviamente, dopo un'occhiata furtiva in direzione della cassa e di suo figlio, perché gli era proibito. (p. 12)

Simenon ci porta all'interno del ristorante, nei suoi riti quotidiani, nel suo menu e nella familiarità con cui padre, figlio e nuora si parlano con gli sguardi, dirigono i camerieri con piccoli cenni. Questa routine si interrompe quando Auguste, vacillò, provò ad aggrapparsi ad una sedia, trascinò a terra sedia e piatti di una giovane coppia di ospiti. In pochi minuti, nonostante la chiamata al medico di fiducia, Auguste muore.

La morte di Auguste, pur risolvendosi in poche pagine (precisamente a p. 19), è l'evento centrale del romanzo, perché mette in moto il consueto balletto sociale di telefonate ai parenti, riunioni familiari, visite di condoglianze, liti sul testamento, insinuazioni e recriminazioni.

In poche parole, si affaccia sul baratro delle meschinità umane. Georges Simenon sceglie questa morte così comune, di un uomo qualunque, come punto di osservazione non solo della cupidigia e dell'ipocrisia che lega i fratelli ma anche della insensatezza delle fatiche e delle costruzioni umane. 

Morto Auguste, restano in scena i tre figli, le loro mogli, con un bagaglio di desideri inespressi, sogni svaniti, bollette da pagare. I tre figli di Auguste sono fra loro molto diversi: Solo Antoine, dicevamo, gli   è sempre stato accanto nella gestione del ristorante, di cui è diventato socio. Ma non si trovano i documenti che testimoniano questo passaggio di consegne e, sotto la crosta della buona creanza, pian piano si manifesta la sfiducia e la voglia dei fratelli di mettere in dubbio l'esistenza di questa società. Ferdinand, invece, l'unico della famiglia ad avere studiato, si vergognava del mestiere del padre Diventato giudice, si era trasferito in un palazzo moderno alla periferia di Parigi, di cui però ancora paga il mutuo. Nonostante lo studio, la sua situazione economica non è prospera come quella del fratello rimasto legato al ristorante. 

Per tutti, anche per la famiglia, Ferdinand era «il giudice». «Mio figlio, il giudice...» diceva il vecchio Auguste ancora il giorno prima. Ne andava orgoglioso. Anche se non avevano per così dire niente in comune, quello era pur sempre il figlio diventato magistrato. Antoine invece era come lui. Si capivano. Avevano lo stesso genere di vita, lo stesso modo di pensare, vivevano in mezzo allo stesso tipo di persone. (p. 60)

Il terzo fratello, Bernard, è un poco di buono, che sogna di fare fortuna ad Hollywood, ma vive senza un quattrino, schiavo dell'alcool. Senza peli sulla lingua, è lui a rivelare che "il re è nudo", che cioè tutta quella riunione di famiglia ha come sottofondo un'unica, spasmodica domanda: "Dove sono i soldi?". Infatti risultano introvabili i risparmi di una vita di Auguste. 
Questi soldi scomparsi e vagheggiati sono il baricentro delle azioni e dei pensieri dei personaggi , mostrati impietosamente dalla prosa scabra di Simenon. Il finale, di rara bellezza e poesia, ci presenta il conto del carattere effimero della vita.

Per Antoine, forse anche per altri, lui non era soltanto morto. Non esisteva più. al suo posto non restava niente. Non lasciava niente dietro di sé. C'era stata un tempo la ragazza di sedici anni dai biondi capelli arruffati, di cui lui aveva tenuto la fotografia nel portafoglio per tutta la vita. C'era stato quel bistrot alle Halles, con le salsicce, i prosciutti, le enormi pagnotte, di cui il vecchio stava mostrando orgoglioso la fotografia a una coppia nel momento in cui era stramazzato trascinando con sé tovaglia, piatti e posate. E c'erano stati dei figli, prima Ferdinand, Antoine e poi Bernard, che l'uno dopo l'altro avevano gattonato nella segatura davanti al bancone di stagno. Avevano formato una famiglia. Auguste aveva avuto una moglie e tre figli. Una moglie che oggi doveva essere imboccata e alla quale, il giorno prima, si era carpita la firma per trasformarla al più presto in denaro. Tre figli che erano stati fratelli, che avevano dormito insieme, che avevano avuto la stessa paura del buio, che avevano scorrazzato con la stessa gioia nel sole della strada. E adesso erano tutti e tre dentro quella macchina muti, senza niente da dirsi, senza osare aprir bocca, perché il vecchio Auguste era morto e loro erano diventati degli estranei. (p. 154)

Simenon si rivela uno scrittore che sa fare male, sa, con la disinvoltura dei grandi, parlare del male di vivere e trasformare la banalità del quotidiano in rivelazione esistenziale.

Deborah Donato