di Marie-Hélène Lafon
Fazi Editore, agosto 2025
Ci sono romanzi che si leggono in una sera e altri che
rimangono addosso molto più a lungo delle loro pagine. Sorgenti, il nuovo
lavoro di Marie‑Hélène
Lafon, pubblicato da Fazi nella traduzione misurata e precisa di Antonella
Conti, appartiene senza dubbio a questa seconda categoria. Appartiene anche a
quella letteratura che non alza la voce, che non urla, non spettacolarizza il
dolore, affidando alla parola la responsabilità di raccontare l’indicibile con
rigore, compassione e misura, diventando strumento di resistenza e rivelazione.
È un libro breve, poco più di cento pagine. Eppure ciò che
racconta ha il peso delle vite intere: quelle delle donne che hanno vissuto e
ancora vivono in silenzio, nella fatica, nell’abnegazione, nel terrore
quotidiano che lascia lividi visibili e invisibili, che incide profondamente la
pelle, la psiche, condizionando i gesti, e ingannando la memoria.
Lafon ambienta la vicenda nel Cantal rurale, cuore profondo
della Francia contadina. Siamo nel 1967, in una fattoria isolata, dove una
donna — madre di tre figli — si muove tra le stanze con la cura invisibile di
chi ha imparato a non disturbare. Il marito è violento, soprattutto nel fine
settimana, quando il vino e il lavoro gli concedono una tregua che diventa
minaccia. Lei, non dice nulla. Subisce. E tace.
Non c'è ribellione dichiarata, nessun gesto eclatante. Solo
l’abitudine a resistere. Qualche piccolo sotterfugio, tipo fare la cresta sulla
spesa per avere qualche soldo da parte tutto suo. Ma niente di più. Parla poco,
quasi niente. Ma pensa. Soprattutto, osserva. La violenza domestica che subisce
è contenuta più nei gesti trattenuti, nelle parole non dette, che in scene
esplicite. Lafon non ha bisogno di dettagli cruenti: il male è insinuato nelle
abitudini, nella ripetizione, nei silenzi forzati. L’autrice lascia che siano i
piccoli gesti — apparecchiare la tavola, sorvegliare i figli, ricordare un
pomeriggio d’estate — a dire tutto.
Lui dice che quando le bambine saranno grandi resteranno con lui perché avrà i soldi per comprare loro dei vestiti. (p. 48)
Ma nel romanzo il tempo non è una linea retta: si allarga,
si ripiega, ritorna. Dopo il 1967, Lafon ci porta nel 1974 - anno in cui è il
marito separato a parlare -, e poi nel 2021, dove invece è la figlia maggiore.
Anche loro non raccontano molto, più che altro mostrano il loro punto di vista.
Il più interessante è condensato nelle ultime tre pagine, quando a parlare è la
figlia. Non potrà mai dimenticare le sue radici – o meglio, la sua sorgente, termine
che dà anche il titolo al libro – ma nemmeno l’impatto della sua vita prima
della separazione dei suoi genitori. Non c’è un’accusa diretta a nessuno, solo delle
prese di coscienza. Il padre invece, anche a distanza di anni dalla separazione, ricorda con disprezzo e poco rispetto la moglie.
Le parole che usa per parlare di lei sono sempre le stesse, da anni, rammollita, incapace, inutile. (p. 99)
Lo stile dell’autrice, con ogni personaggio, è asciutto, essenziale, quasi ostinato nel rifiutare qualsiasi compiacimento. Non c’è retorica, e non c’è enfasi. I dialoghi sono ridotti al minimo. A parlare sono i gesti, le omissioni, i dettagli quotidiani: una tavola apparecchiata con ordine, una visita dai genitori della donna, il rumore dei passi che annuncia un pericolo. È la scrittura della sottrazione, quella che sa farsi carico della verità.
In Sorgenti, Lafon riesce in un’operazione rara: raccontare
la violenza domestica senza spettacolarizzarla, evitando il pietismo ma anche
la freddezza. Al centro c’è una donna come tante, anonima e apparentemente
docile, che a un certo punto, semplicemente, sceglie di andarsene. Non c’è
vendetta, ma solo la necessità, e in quella necessità una forma
sobria e dignitosa di salvezza.
Ma questo è anche un romanzo sulla memoria. Su come le
ferite si trasmettano — a volte — in silenzio, da madre a figlio, da gesto a
gesto. La narrazione salta tra decenni non per creare un effetto narrativo, ma
per restituire la verità di come il tempo agisca: non cancella, stratifica. E
in quelle stratificazioni trova posto anche una speranza quieta, non ingenua, nei confronti non tanto del futuro, quanto del destino.
Lafon, già vincitrice del Prix Renaudot nel 2020, conferma la sua capacità di dare voce a una Francia periferica, fatta di
paesi, di famiglie chiuse, di donne invisibili che portano avanti la civiltà
dei giorni. È una scrittura civile, nel senso più profondo: non predica, ma
ascolta. Non denuncia con clamore, ma interroga. Chi leggerà questo libro non
troverà eroine né redenzioni spettacolari. Troverà qualcosa di più raro: la
possibilità di capire, in silenzio, cosa significa vivere anni interi
nell’ombra di una violenza normale. E cosa significa, un giorno, senza gridare,
decidere che è abbastanza.
A fine lettura, resta una domanda: quante donne, ieri come
oggi, vivono ancora imprigionate in quella stessa casa, con lo stesso silenzio?
E quante troveranno, come la protagonista, la forza di andarsene?
Giovanna Scalzo
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