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Come dire il dolore più grande: "Il bambino" di Fernando Aramburu

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Il bambino
di Fernando Aramburu
Guanda, 2024 

Traduzione di Bruno Arpaia

pp. 272
€ 18 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Sai cosa mi ricordavano quei giorni tra l'esplosione della scuola e la fine dell'inverno? Le strade dritte del Nord America che si vedono in certi film. Attraversano un paesaggio arido e si perdono in una salita in lontananza. Una sa che alla fine del rettilineo ne comincia un altro simile e poi un altro e un altro ancora. E io mi immaginavo camminare lungo una di quelle strade polverose per dirigermi... dove? Per me era lo stesso andare in qualche posto o da nessuna parte. Eppure, nonostante ciò, non potevo fermarmi perché la vita è proprio questo, muoversi, respirare che lo vogliamo o no, aprire e chiudere le palpebre senza rendercene conto e camminare, forza, su, verso il prossimo prolungamento della strada con la speranza di trovare dietro l'orizzonte una ragione, un obbiettivo, forse un punto d'arrivo. (pp. 95-96)

C'è uno squarcio che taglia in due questo libro di Fernando Aramburu, Il bambino.
È provocato da un'esplosione e taglia in due anche il lettore che a questa storia si avvicina. Io l'ho fatto dopo la lettura di quel - penso si possa usare questo termine senza esagerazioni - capolavoro che è Patria, la storia di due famiglie "interrotte" dalla tragedia del terrorismo basco dell'ETA. Un romanzo commovente pieno di lacrime, acredine e anche dolcezza. Dopo Patria, avevo bisogno di leggere ancora Aramburu, nella consapevolezza che in pochi sanno raccontare il dolore come fa lui, con una scrittura che sembra fatta proprio per questo. 
La sinossi de Il bambino ci dice sin da subito che siamo di fronte a un grande dolore, probabilmente il più grande: la perdita di un figlio
L'esplosione è quella della scuola di Ortuella (comune dei Paesi Baschi) che il 23 ottobre del 1980, un giovedì come tanti, venne distrutta da una fuga di gas. Persero la vita cinquanta bambini tra i cinque e i sei anni, oltre a tre adulti. A perdersi, dunque, non è solo un figlio, ma i figli di una intera comunità. L'incidente, che sconvolse i Paesi Baschi e l'intera Spagna, è il punto di avvio per il viaggio letterario nei territori sconfinati di questa perdita. Aramburu decide di farlo prendendo come punto di osservazione privilegiato la famiglia di Nuco, uno dei bambini morti nell'esplosione.
Entriamo dentro le giornate e i pensieri della madre Mariaje, del nonno Nicasio e del padre José Miguel, ciascuno con il proprio modo di affrontare o negare il lutto. Il romanzo è costruito su un'alternanza continua dei punti di vista, in cui non solo si avvicendano gli sguardi sull'esistenza dei personaggi ma anche le loro voci che prendono parola in prima persona in certi momenti. A corredare il tutto, ci sono dei momenti in cui è il romanzo stesso che "pretende di commentare sé stesso". Lo dichiara l'iniziale Nota dell'autore
I lettori di questo libro troveranno una decina di passaggi in cui il romanzo, se non ho capito male, pretende di commentare sé stesso. Chi si esprime lì in prima persona è proprio il testo, consapevole, a quanto esso stesso afferma, di consistere in un insieme di parole che trasmettono una storia [...] Nulla sarebbe stato più semplice per me che sopprimere quei dieci passaggi, pur riconoscendo che la loro brevità mi invita a tollerarli. Al di là della perturbazione che possono arrecare alla lettura e dell'antipatia che forse sulle prime susciteranno, il loro contenuto non mi pare irrilevante [...] Per di più, riconosco che contribuiscono a introdurre oasi di calma riflessiva in una storia che di frequenta sfiora i limiti dell'intensità. (pp. 5-6)

La promessa è mantenuta: Il bambino in molti passaggi sfiora i limiti dell'intensità e diventa troppo forte. Si dice sempre che il dolore per la morte di un figlio sia ineffabile, come diceva Dante di fronte all'amore per Beatrice o alla visione di Dio: cioè non si può esprimere a parole. Ma Aramburu su questa sfida costruisce il libro, talmente consapevole dei limiti umani da farlo entrare in prima persona a dialogo con il lettore per dargli tregua, per commentare, rassicurare, uscire un attimo dall'intensità dei fatti. 
Lo sguardo sulle tenerezze e le ferocie familiari è lo stesso di Patria, qui con un occhio ancora più intimo e appartato. Il narratore Aramburu - o forse il suo romanzo che prende vita come un personaggio - entrano nello spazio nel dolore così grande della morte dei bambini nel tentativo di dire come si fa ad andare avanti, come ci si può svegliare ancora un altro giorno, come si possono fare cose normali quali lavare i panni sporchi, bere un bicchiere di vino al bar, andare in bicicletta, guardare la televisione, fare compere, lavorare. Come si affronta l'ingresso nella cameretta di un bambino che non c'è più, cosa si fa con i suoi oggetti, con i vestiti e i giocattoli. 
Rispetto a Patria - che racchiude mille colori stilistici al suo interno - la lingua è più piana, semplice, essenziale. Probabilmente è la lingua più adatta per dire tutto questo. 

Ovviamente l'esplosione non è solo la deflagrazione delle vite dei singoli, ma uno squarcio nella storia dei Paesi Baschi, terra d'elezione della letteratura di Aramburu, raccontata anche qui nelle sue contraddizioni e fragilità, con un minore sguardo politico rispetto a Patria, ma sempre con un'occhiata attenta alla Storia sullo sfondo. È il racconto di un lutto immenso vissuto "a porte chiuse", con famiglie che evitano di guardarsi in faccia e scambiano poche parole per il timore di dover condividere.

E tuttavia, il lutto aleggiava costante nell'aria. Si percepiva nelle facce, negli sguardi, nella scia di silenzio che gli uni e gli altri lasciavano al loro passaggio. Da un saluto, da un determinato modo di muovere la testa, intuivi: Anche questi hanno avuto la loro razione di tragedia. (p. 150)

Il bambino è la prova di un grande narratore che racconta la meraviglia dell'umano anche di fronte ai fatti più terribili. È un romanzo che cammina nel buio e come tale richiede al lettore di fidarsi e affidarsi, perché camminare nel buio non è semplice e può creare disagio. Consiglio di farlo quando si è volenterosi di affrontare una storia così intensa, perché pronti davvero probabilmente non si è mai. 


Claudia Consoli