Le parole d’ordine
di Andrea Dei Castaldi
Barta, 2024
pp. 177
€ 13,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
La guerra s'ingoia tutto, anche le parole con il loro significato, le mastica e le sputa fuori e poi vogliono dire qualcos’altro. (p. 42)
È in un’aria tesa e sospesa che il 26 agosto 1978 Olga Casaro, nipote di
Oreste, accoglie alla stazione di Vicenza tre
uomini i cui destini sono strettamente intrecciati a quelli dello zio. Sono
passati trentasette anni dall’ultima volta che si sono incontrati, e tutto pare
cambiato («nessuno di noi è rimasto
quello che era prima della guerra», p. 15): il cappellano, don Stefano, ora
è solo Stefano, e anche il Capitano, Domenico, non è più Capitano. Solo il
medico inglese, John William Abbott, ha proseguito la sua professione.
Attraverso continui flashback e l’alternarsi
dei punti di vista, la narrazione riporta ai primi mesi del 1941, quando, in
Libia, gli italiani stanno combattendo contro gli inglesi una «guerra da straccioni» (p. 18), e già
sentono che presto dovranno fare i conti tanto con le motivazioni sbagliate di una guerra sanguinosa e utilitaristica,
quanto con la scelta di alleati altrettanto
sbagliati, di cui saranno
considerati corresponsabili; o ancora in una Londra devastata dai
bombardamenti, dove un giovane un uomo si prepara a partire per il fronte,
prendendo congedo da una donna amata e inarrivabile
Aleggia tra le
pagine, al di là della ricostruzione del passato da parte dei protagonisti, un senso di spiritualità condivisa
che tutti paiono avvertire, nella sospensione che circonda il loro incontro e
che precede la cerimonia che li ha riuniti. Così, il romanzo fa emergere anche una
riflessione sul significato
dell’esistenza, sulla trascendenza
e l’immanenza, sulle origini del Male e del Bene, e sulla
loro interconnessione. La fede diventa qualcosa che può travalicare
l’istituzione religiosa e riguardare piuttosto il rapporto dell’individuo col mondo. In questo solco si inserisce una
sottotrama, a dire il vero non così armonica o necessaria, che coinvolge
Stefano, Papa Luciani e l’ideale di una rivoluzione necessaria all’umanità, ma
continuamente posposta.
Alcuni piani narrativi, e alcune voci, risultano più forti e convincenti di altri: se i capitoli incentrati sul 1978 tendono inizialmente a disperdersi in un tentativo troppo marcato di creare aspettativa rispetto agli eventi, quelli dedicati al tempo di guerra risuonano maggiormente. Tra tutte, riecheggia la voce solenne, ispirata, di don Stefano, sempre più scosso dalla grandezza di un mistero che non può decifrare e che pare non bastare più, di fronte alla miseria e al dolore di un conflitto fratricida. A lui l’autore dona l’afflato emotivo più vivido, proprio nel momento della massima crisi spirituale:
Abbi pietà di me, o Signore. Alle mie spalle si apre il deserto e ne sento il peso, la consistenza liscia e dura come di muraglia immane che inclina paurosa e non si sgretola, un nulla immobile il cui silenzio è un boato che fa di uno scoppio di mina un esile schiocco. Lo sento distendersi spaventoso e placido, come un vecchio dalla faccia segnata stanco o infermo, ne vedo il vuoto negli occhi vuoti degli uomini che mi stanno davanti stretti l'uno all'altro, decine e decine e centinaia di occhi che guardano oltre me, in attesa che rovesci su di loro l'amore di Dio come fosse acqua di cui si ha sete e la si beve e si può dire ecco, ancora un poco, posso farcela. Ma è il deserto alle mie spalle che guardano e non se ne staccano, e il suo riflesso nei loro occhi ha il colore rosso della paura e del sangue, e della polvere secca di cui sono fatte ormai le loro divise. (p. 28)
Invece il
dottore, che venticinquenne lascia l’Inghilterra per sfuggire a una realtà
scomoda e alla sua sofferenza, ma anche per trovare un senso a quanto sta accadendo nel mondo, si fa portatore
di una visione altra, ma che permette di mostrare come la guerra travolga
indifferentemente i giovani di ambo gli schieramenti.
Nel proseguire delle pagine dedicate al passato, si tarda a incontrare Oreste, a capire come le sorti dei quattro protagonisti si siano incrociate. Eppure è Oreste la chiave di tutto: Oreste che non può più parlare, e ha avuto una vita sciagurata, e la medaglia al valore militare che gli vogliono offrire (clamorosamente fuori tempo, quando tutti i valori sono stati ormai rimessi in discussione e c’è stata pure una Resistenza di mezzo) proprio non la vuole accettare; Oreste, che ha rischiato di morire annegato a dodici anni, e che da allora ha uno sguardo diverso, in grado di oltrepassare i confini tra i mondi, di muoversi attraverso il tempo, di trasformare la propria coscienza in un flusso bergsoniano, che si risveglia a sussulti.
È l'unico uomo che io abbia incontrato che non ha paura della morte, è tutto qui, l'enigma.Non lo so, dico io scuotendo la testa, mi viene da pensare che sia il contrario, perché lo ricordo anch'io a Bengasi, e ciò che era più disarmante era proprio quel suo sorriso, quel suo sguardo limpido su un mondo in pezzi che nessun Dio avrebbe mai potuto salvare, ed era come se lui ci mostrasse quanto stessimo sbagliando, e quanto facile sarebbe stato se tutti avessimo guardato quel mondo con i suoi occhi, e lo faceva senza mai giudicare nessuno, ma con una specie di amore per gli uomini che ancora non conoscevo. Credo che sia questa la risposta, concludo, Oreste non ha mai avuto paura di vivere.In fondo state dicendo la stessa cosa, dice Stefano guardando il cielo più scuro oltre il cortile. (p. 70)
La guerra è straziante, e impossibile da decifrare; ora distrugge (luoghi ideali uomini), ora rivela la vanità dei moventi, l’insensatezza delle esistenze, la vacuità dei desideri («la guerra mi ha solo messo di fronte a ciò che ero, a ciò che sono, senza inganni», p. 80). Al tempo stesso, però, può diventare spazio della rivelazione, di una fratellanza scoperta nel nome di una comune umanità. Allora anche le nazionalità – inglese, italiano – diventano parole inani come le altre, e questo però invece che lasciare un vuoto di senso il senso lo disvela, proprio mentre ci mostra l’Altro che ci è di fronte. La mite serenità di Oreste, che tutto accetta nella consapevolezza che non è ancora arrivato il momento della sua morte, pone ciascuno dei comprimari di fronte a se stesso.
E mi chiedevo allora quale incrollabile ideale o quale certezza lo sostenesse, perché c’era qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che non capivo, come se sapesse qualcosa che io non sapevo e che mai avrei saputo. Ma ora comincio a credere che si tratti di qualcos'altro, che si tratti di non sapere affatto, di non sapere e di accettare la vita e accoglierla, senza domande, perché le pietre e gli alberi e l'acqua del fiume non sanno e non si fanno domande, e noi siamo fatti della stessa materia. (p. 141)
Il Capitano, il Don e il Dottore, riuniti dopo una vita intera, ancora carichi
del peso dei loro segreti e delle loro questioni irrisolte, devono perdonare innanzitutto a se stessi, per
le scelte errate, o quelle mai compiute. Il 1978 è un tempo di cambiamento, per
la società, ma anche per gli individui, che possono finalmente sciogliere i
nodi del passato. Le “parole d’ordine” evocate dal titolo non sono tanto i
comandi dell’esperienza bellica, quanto gli
ideali a cui ciascuno sceglie di dedicare
la sua vita. Il tempo li scuote e li mette alla prova, alcuni si
sostituiscono ad altri, ma la loro perdita definitiva corrisponde a uno
sprofondare dell’esistenza. E se il mondo non si può ancora cambiare, forse ciò
che soccorre l’uomo è proprio trovare
qualcosa in grado di radicarlo – al suo tempo, alla sua vita – e alimentare la sua coscienza, il suo
senso morale.
Qualcosa in
grado di donare pace, di alimentare quel sentimento combattivo, ostinato che
sussurra (come accade a Oreste) «non ho
paura, non è oggi che muoio», e che fa pertanto proprio dell’oggi – di ogni oggi – un giorno in cui è possibile vivere davvero.
Carolina Pernigo
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