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“Quante cose ci ha rubato la guerra”: lettere, ricordi e la resistenza delle vite comuni

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Quante cose ci ha rubato la guerra
di Manuela Barban
Las Vegas edizioni, maggio 2024

pp. 179
€ 15,00 (cartaceo)
€ 5,99 (e-book)

Goffredo si sedette sull'ultimo scalino e tirò fuori dalla tasca un fazzoletto. "La guerra è finita", pensò, "e ora dipende solo da noi costruire la pace". (p. 176)

L’autrice sceglie di raccontare il dopoguerra immediatamente successivo all’armistizio non attraverso le battaglie o i grandi eventi della Resistenza, già ampiamente narrati, ma attraverso il filtro delle vite quotidiane: le lettere tra due coniugi, i conflitti domestici, i gesti minimi che garantiscono la sopravvivenza. Da questa prospettiva emergono episodi che restituiscono il senso di comunità del popolo italiano, come i macchinisti che rallentano i treni per far salire i disertori, rischiando a loro volta; sono immagini di solidarietà minuta, che danno corpo a un’epoca segnata da paura e incertezza.

Il cuore del libro è il rapporto tra Goffredo e Silvana. Il loro matrimonio riflette i ruoli tradizionali del tempo, ma anche i primi scarti rispetto a un ordine che non regge più. Goffredo soffre perché non riesce a imporsi; Silvana, donna indipendente e fiera, pretende rispetto e rifiuta di piegarsi ai suoceri che la giudicano. Le lettere mostrano oscillazioni continue: dichiarazioni d’amore e ultimatum, slanci e fratture. In un passaggio emblematico si legge: 

«Maledetta guerra» imprecò Goffredo battendo un pugno sul tavolo. Non sopportava l’idea di aver perso il controllo su sua moglie. (p. 44) 

È il segno di un’epoca in transizione, in cui il matrimonio diventa il luogo di un conflitto più ampio, quello tra autorità e libertà.

Un’altra linea narrativa interessante riguarda il rapporto tra Goffredo e Neumann. Incaricato dal Comitato di cospirazione di stabilire un contatto con lui, Goffredo finisce per legare a livello personale con la SS: l’ufficiale lo introduce a esperienze nuove, come lo spettacolo all’Opera, e gli offre persino consigli sul suo matrimonio. Un legame che richiama, per certi versi, quello tra Guido e il dottor Lessing in La vita è bella: anche lì un rapporto inatteso sembra aprire uno spiraglio di umanità, ma a differenza del film di Benigni qui non prevale la follia autoreferenziale, bensì un dialogo capace di lasciare traccia. Alla fine, Goffredo si sorprende a sperare nella sua salvezza, un rovesciamento che mostra come il contatto umano possa incrinare persino le barriere più rigide.

Il romanzo attraversa scenari storici noti – l’attentato a Hitler, i partigiani di Tito a Trieste, la vita operaia all’Ilva – e li affianca a dettagli più intimi e concreti: la carta da incollare alle finestre per l’oscuramento, l’odore nei rifugi antiaerei, la difficoltà di reperire zucchero o burro, lo sgambetto ironico a un uomo durante un bombardamento. È proprio da questi frammenti che emerge la consistenza della vita quotidiana in guerra, oscillante tra tragedia e resistenza silenziosa. Non manca uno sguardo critico sulla ricostruzione. Le lettere inviate al commissario dell’Ilva mettono in luce la corsa a spartirsi le poltrone, i giochi di potere che smentiscono l’illusione di una pace condivisa. Goffredo comprende che dietro la fine delle armi si cela un’altra forma di conflitto, e desidera soltanto tornare a casa.

Dal punto di vista stilistico, Barban alterna registri differenti. Alla prosa narrativa si affiancano lettere tra i due coniugi, che spezzano il ritmo e introducono la voce diretta dei protagonisti. A intervalli compaiono resoconti storici di due o tre pagine, con date e eventi, simili a brevi manuali: un’integrazione che inquadra la vicenda privata nel contesto più ampio. Le prime pagine, incentrate sulla ricostruzione dell’albero genealogico di famiglia, mostrano un infodump evidente, funzionale però all’idea di un racconto radicato nei documenti.

La scoperta da cui nasce il romanzo è che le vite dei nonni non erano ordinarie né tranquille, ma segnate da scelte dolorose, compromessi, passioni intense. Una “scatola di famiglia” si rivela scrigno di vicende capaci di rispecchiare l’intera epoca. Non a caso, in chiusura, un QR code consente di consultare le fotografie e i documenti originali, gesto che prolunga il dialogo tra memoria e narrazione.

Quante cose ci ha rubato la guerra dimostra che il privato può diventare chiave d’accesso alla Storia. Con una scrittura che intreccia registri diversi e un’attenzione costante ai dettagli concreti, Manuela Barban costruisce un romanzo capace di unire dimensione familiare e collettiva, intimità e memoria condivisa.

Leonardo D'Isanto