Giuseppe Garibaldi. Che cosa rappresenta questo nome per gli italiani del 2025? Che cosa resta del mito dell'eroe dei Due Mondi? Si tratta di un personaggio storico come tanti, di cui si parla, a volte poco e male, nelle scuole o la sua voce, che gridava di libertà e ribellione, significa ancora qualcosa di più per il popolo che abita le terre dal Piemonte alla Sicilia? Nell'Italia di oggi, rassegnata e silenziosa, vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro, esistono ancora "camicie rosse"? Uomini e donne mossi dall'ardore civile, dalla passione per la giustizia e la libertà?
E Giuseppe Garibaldi come parlerebbe alla nazione dei Fratelli d'Italia e di una sinistra forse non più del tutto in grado di ascoltare la voce del popolo?
Sono queste le domande che hanno spinto Paolo Rumiz, il noto autore, giornalista, viaggiatore, cantore, autore di oltre 30 libri, a riprendere in mano i vecchi appunti del viaggio compiuto per l'Italia nel 2010, nel 150esimo anniversario dello sbarco dei Mille di Garibaldi a Marsala e a un anno dalle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Bella e perduta. Canto dell'Italia garibaldina, uscito da poco per Feltrinelli, è il risultato di questo ritorno e dell'approfondimento del viaggio, sulle tracce di Garibaldi e delle vestigia garibaldine, compiuto 15 anni fa. Con indosso, per l'occasione, una fiammante camicia rossa, fatta cucire appositamente sulle misure della camicia di uno dei Mille, Domenico Cariolato da Vicenza, esposta al Museo del Risorgimento della sua città. Un modo del tutto personale, e in perfetto stile Rumiz, per riflettere sull'identità nazionale e sul concetto di memoria come tassello fondamentale per costruire il presente.
Per sua stessa ammissione l'autore non aveva mai avuto e trovato il tempo per rispondere alle centinaia e centinaia di lettere che avevano invaso la redazione de La Repubblica, il quotidiano che pubblicava a puntate il viaggio in quell'estate del 2010. Lettere e mail appassionate di persone che tiravano fuori dalle soffitte e dai bauli antiche vestigia garibaldine appartenute a bisnonni, lettori che davano consigli su letture da non perdere, che raccontavano di convegni organizzati in varie cittadine italiane, che invitavano a vedere lapidi e statue in giro per l'Italia, che rievocavano ricordi di nonne che avevano cucito camicie a qualcuno dei Mille, di nonni osti che avevano servito loro da bere, di bisnonni che l'avevano visto. Tante, tantissime voci che magnificavano Garibaldi o che, al contrario, lo insultavano.
Ma c'erano soprattutto esortazioni a riprendere la bandiera e a salire sulle barricate. Esse denunciavano un forte bisogno di ascolto e partecipazione, un bisogno che la politica aveva evidentemente ignorato (p. 34).
Un mare di materiale che, colpevolmente (lo dice lui stesso), l'autore aveva chiuso in qualche cassetto per 15 lunghi anni. E che rappresentava un'Italia assai diversa da quella attuale, un'Italia nella quale la Lega sprizzava ancora fiammate antiitaliane, non così lontana da quei Serenissimi che, negli anni 90, avevano osato portare il "Tanko", una specie di carro armato, in piazza San Marco ed erano saliti sul campanile per issarvi il Leone Alato, simbolo della Repubblica di Venezia, in ossequio alle loro idee sull'autodeterminazione e indipendenza del popolo veneto. Per la cronaca, gli autori del gesto eclatante furono arrestati e processati.
Passati 15 anni da allora, l'Italia ha cambiato nuovamente faccia, quei tempi sembrano lontanissimi, ben altre nubi si addensano al nostro orizzonte. Ora che l'identità italiana si definisce intorno alla negazione, rappresentata cioè da tutto ciò che non è immigrato, o intorno all'ostentazione del made in Italy, ora che la memoria collettiva sembra svaporare in un individualismo sordo ai bisogni degli altri, che cosa direbbe Garibaldi?
La risposta sta nelle prime 26 pagine del libro, un'invettiva, scritta in prosa risorgimentale, che Rumiz immagina pronunciata dall'eroe dei Due Mondi per provare a scuotere gli italiani. Come già aveva fatto tra il 1849 e il 1860.
Dopodiché si parte con la ripresa del racconto del viaggio del 2010 che ha portato Rumiz da Perugia a Vicenza, da Verona a Torino, da Palermo a Capua, da Roma a Caprera, passando per tanti piccoli paesi che avevano, tutti, qualcosa da raccontare su Garibaldi, sulla sua spedizione e sulla sua vita. Incontri, aneddoti, storie, racconti, insomma tutto quello che Rumiz mette nei suoi libri straordinari.
Ma come era nato quel viaggio? Banalmente dallo sdegno per gli insulti a Garibaldi, così comuni in quegli anni. L'indignazione è un motore potente: riesce a ringiovanire persino un vecchio arnese come me. Pur avendo un cuore mitteleuropeo di radice austroungarica, teoricamente incompatibile con quello delle Camicie Rosse, si era accesa in me, per reazione, un'irresistibile simpatia per un uomo che il "mio" ex imperatore Franz Joseph, considerava - a ragione - nemico giurato (p. 39).
Il libro, infine, si chiude con la pubblicazione di parte di quei messaggi, di quelle lettere che tanti italiani 15 anni fa gli avevano mandato, entusiasti del viaggio garibaldino. Messaggi in grado di porsi domande di questo tenore:
Da Grosseto - Dalla storia di Garibaldi emerge una domanda fondamentale, ineludibile: quanti di noi sarebbero pronti a imbracciare un fucile per difendere la libertà? (p. 166)
Basterebbe ovviamente la metafora del fucile, nel senso di passione, desiderio di impegnarsi, coscienza civica, desiderio di giustizia.
Non si cerchino in questo libro giudizi storici approfonditi sulle gesta dell'eroe o approfondimenti sulla cosiddetta Questione meridionale, non è certo questo il luogo. A Rumiz interessa, più di tutto, capire perché il mito, che spesso muove la politica e la storia (basti riascoltare il discorso d'insediamento di Donald Trump, infarcito di riferimenti alla Golden Age e alla sua figura di salvatore), nel caso di Garibaldi si sia affievolito. Ci è riuscito? In parte. Perché al di là dei contenuti del viaggio, godibilissimi e rispecchianti quello che ci si aspetta da un libro di Rumiz, questo libro non ha il passo usuale degli altri libri dell'autore, che ho apprezzato molto di più. Diversi gli aspetti che non mi hanno convinto appieno, a partire dalla giustapposizione di parti, dall'invettiva garibaldina, al viaggio, ormai datato, ai messaggi dei lettori. Traspare un senso di occasione passata, di un qualcosa che forse andava approfondito prima, trattando di un passato che è troppo recente per avere l'interesse della Storia e troppo vecchio per avere l'appeal della contemporaneità. E anche l'invettiva stessa, immaginata con la voce stentorea di Garibaldi, e posta proprio a inizio libro, forse non aiuta del tutto. L'avrei vista meglio divisa in varie parti, ognuna posta a inizio di capitolo. Forse così poteva essere più incisiva nei suoi confronti con il momento presente, poteva maggiormente indurre il lettore a riflettere. Chi l'affronta invece per tutte quelle pagine, in quella prosa roboante (e d'altra parte, se parla Garibaldi, non può che essere così) può essere portato ad augurarsi che il libro non continui così fino alla fine.
In ogni caso questo canto alla nostra Italia, un po' smemorata del suo tricolore, spesso associato soltanto alle imprese calcistiche della Nazionale (pessime, ahimè, anche queste, negli ultimi anni) può, come spesso fanno i libri dell'autore triestino, aprire un dibattito, spingere alla riflessione, costringere a porsi domande: cosa significa oggi essere italiani? Qual è il nostro posto nel mondo? E come ci dobbiamo rapportare a tutto ciò che non è italiano ma lo sta, a fatica, con strappi e spigoli, diventando? Lo spirito garibaldino, con il suo anelito all'unione, esiste ancora? E in quali aspetti del vivere civile si palesa?
Infine, laddove le pagine si librano nel racconto del viaggio, il libro regala la solita bella esperienza di lettura che la penna felice di Rumiz non manca di dare.
Sabrina Miglio
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