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Affrontare il cambiamento. "Le mie vite in gioco" dell'atleta paralimpico Ian Sagar

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Le mie vite in gioco
di Ian Sagar e Alessandro Camagni
add editore, 2019

pp. 190
€ 14,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)

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L’Inghilterra del nord è una zona poco esplorata, dai turisti e dalle cronache, nota principalmente per «le miniere e il cielo grigio» (p. 9) e per «gli scioperi, le manifestazioni, gli scontri di piazza e la povertà diffusa» (p. 10) che hanno fatto seguito alle riforme di Margaret Thatcher. Qui, in un’area depressa e con poche speranze per il futuro, nasce all’inizio degli anni ’80 Ian Sagar, che come tutti i suoi coetanei appare destinato a una vita già scritta, dagli orizzonti ristretti.

Poi, in una giornata qualunque dei suoi diciassette anni, un casco allacciato male e un incidente in motorino rovesciano, letteralmente ogni prospettiva. In Le mie vite in gioco, l’atleta paralimpico, vincitore della medaglia di bronzo a Rio de Janeiro dopo una giovinezza trascorsa sui campi da basket di mezza Europa, racconta la sua storia al giornalista Alessandro Camagni. Ne deriva un’opera caratterizzata da una prosa estremamente lineare, ma ricca di riferimenti al panorama culturale giovanile degli anni ’90, in cui i lettori della mia generazione immancabilmente si ritroveranno.

Quello di Sagar è un approccio non emotivo, ma pragmatico, razionale, e pertanto più utile a una piena comprensione della sua situazione, anche da un punto di vista organizzativo («l’abituarsi a una vita completamente diversa rispetto a prima coinvolge non solo il paziente, ma anche tutti i membri della sua famiglia», p. 38). Sagar descrive molte problematiche legate alla quotidianità della persona con disabilità: la difficoltà della riabilitazione e del reinserimento, la necessità di adattare le abitazioni, le tensioni tra famigliari, che cercano soluzioni senza sapere ancora quale possa essere la migliore, la logistica degli spostamenti, che cessano di essere una faccenda del tutto naturale e vanno programmati e studiati in ogni minimo dettaglio. Un intero capitolo è dedicato alla sedia a rotelle, «l’oggetto che definisce il disabile» (p. 51), ma anche una parte integrante del suo corpo, elemento prezioso, anche se vissuto a tratti con conflittualità. Ingombrante, a tratti difficile da manovrare, la carrozzina è anche però la chiave dell’indipendenza, e uno dei principali mezzi di accesso al mondo.

Al tempo stesso, un’attenzione particolare è riservato all’impatto della disabilità, soprattutto nella relazione con l’alterità, che diventa nuova unità di misura di una presunta “normalità”: «Per chi come me si trovava da poco in quella situazione, gli occhi degli altri erano un territorio tutto da scoprire e il loro pensiero un mondo nuovo da capire» (p. 56). Se il disabile realizza presto che il concetto di normalità ha più a che vedere con le abitudini della maggioranza che con una reale qualità, la società deve invece lavorare ancora molto per arrivare a tale consapevolezza, per uscire da una logica che, per quanto comune, può risultare presuntuosa e dare adito a situazioni tragicomiche del rapporto con chi non risulta “conforme”.

Come nel memoir di Jan Grue, viene messo in rilievo lo spiazzamento di chi si trova ad affrontare il proprio trauma psico-fisico: l’essere posti all’improvviso al centro dell’attenzione, trovarsi in un contesto in cui tutto inizia a ruotare intorno al deficit, da un lato toglie ogni forma di privacy, dall’altro rischia di far dimenticare la realtà esterna e genera un insopprimibile bisogno d’evasione. In questo senso, oltre agli amici e alle serie TV, anche lo sport può giocare un ruolo importante. Arrivarci però non è così immediato. Ian Sagar, ormai campione indiscusso, non esita a raccontare gli ostacoli incontrati nell’approccio al basket in carrozzina: a fronte di una attrazione immediata per la fisicità e il dinamismo che poteva osservare durante le competizioni, i primi tentativi sono stati per lui tutt’altro che appaganti.

Sognavo canestri, contatti e azione, mentre quando misi le ruote sul linoleum della palestra fu un mezzo disastro, anzi un disastro totale. […] Quella carrozzina sportiva mi sembrava indomabile. […] Ero proprio scarso. Non nel senso che facevo le cose male, ma nel senso che non riuscivo letteralmente a fare nulla. (pp. 47-48)

Anche in questo caso, come del resto in tutti gli sport, il talento non è di per sé sufficiente. Servono sforzi, dedizione continua, una rigida autodisciplina e la forza di non mollare di fronte alle prime sconfitte. E per Ian tutto questo non è immediato come si potrebbe pensare guardando da una prospettiva a posteriori alla sua carriera:

«Non fa per me», sentenziai dopo pochi minuti. La questione era anche psicologica.
Mi sentivo troppo impacciato e questa situazione mi ricordava che ero un disabile, uno che non poteva fare le cose come le faceva prima: ero diventato un essere umano debole. Dopo mesi a ricostruirmi una parvenza di normalità mi trovavo di fronte alla realtà della mia disabilità e solo perché avevo messo le ruote della mia carrozzina su un campo da basket. Quella sensazione di fallimento mi faceva sentire diverso. […] Gli altri erano bravissimi, sembrava lo facessero da una vita, sembravano nati con il talento per il basket, io invece non riuscivo neanche a palleggiare.
Mi prese lo sconforto. (pp. 48-49).

Per superare il limite – quello del corpo, ma forse ancor più quello dell’anima – è fondamentale la qualità delle relazioni che si creano intorno a sé. Ian Sagar descrive il sé del passato come un giovane uomo molto fortunato, nonostante l’incidente: nella sua nuova condizione, ha incontrato soprattutto brave persone e gente disponibile, amici che non lo hanno mai abbandonato e famigliari pronti a supportarlo in tutto. Anche l’impegno nel lavoro, visto come un modo per ritrovarsi e rientrare in una vita regolare, gli ha portato stima e rispetto. Il fatto di vivere in una zona depressa, e di trovarsi a poco più di vent’anni disoccupato per la chiusura dell’acciaieria in cui lavorava, lo ha costretto a reinventarsi, a scoprire in sé nuove risorse. L’incidente, del resto, lo ha abituato ad affrontare il cambiamento, e questa straordinaria resilienza lo conduce nuovamente al mondo del basket.

Rispetto alla prima volta, il contesto è differente: lui è cambiato, ha acquisito nuova consapevolezza del suo corpo, delle potenzialità della carrozzina, e il suo slancio agonistico lo porta ben presto a diventare uno dei migliori, almeno a livello locale. La nazionale però richiede ben altri sacrifici, una diversa temperanza. E Ian si tempra, inventa soluzioni, trasforma le debolezze in motivazione e fa esperienza del mondo, trasferendosi in Spagna per la sua prima stagione da professionista.

Se penso a come stavo l'anno precedente mi viene da ridere. Perché non l'avevo fatto prima? mi chiesi più di una volta. Perché non avevo avuto il coraggio e la determinazione di fare quel piccolo passo avanti e buttarmi a capofitto nel mondo dello sport professionistico? Era stata la necessità a farmi fare quel passaggio cui, in qualche modo, avevo sempre voluto arrivare. Lo sport non solo come sogno da tenere nel cassetto, ma come impegno e professionalità, dedizione e investimento su me stesso. (p. 126)

Sagar tiene molto a sottolineare il suo ruolo di atleta professionista, anche per combattere i pregiudizi che vogliono, non senza un po’ di pietismo, che per il disabile lo sport sia soltanto un hobby.

Sono un atleta professionista da dieci anni, perché da dieci anni offro le mie prestazione sportive in cambio di uno stipendio. […] Il mio contratto è regolato su base nazionale, e su quello pago le tasse e i contributi per la pensione. […] Il basket in carrozzina è il mio lavoro, però ogni tanto percepisco che per qualcuno non è così. Quando conosco una persona e dico che gioco a basket in carrozzina la maggior parte delle volte vedo comparire uno sguardo che conosco fin troppo bene. Quel sorrisino compassionevole che vuol dire: «Che bravo, nonostante la tua disabilità giochi anche a basket». (p. 181)

Le mie vite in gioco è un testo efficace anche per il modo in cui, con semplicità, contribuisce a informare i suoi lettori, che potrebbero a tratti sorprendersi, e realizzare di aver assecondato per tanto tempo alcune credenze errate, in merito alla disabilità e al contesto sportivo che la coinvolge. Sagar appare lontanissimo da qualunque intento moralistico, al contempo però riesce a far riflettere su alcune difficoltà che si trova ad affrontare l’atleta disabile, non ultima quella di mantenersi col proprio lavoro in un circuito in cui le risorse economiche sono ben diverse da quelle a cui hanno abituato gli sport più mainstream, e nel quale lo sportivo deve sempre necessariamente avere pronto un piano B. Anche per questo Sagar può parlare non di una, ma di “tante vite”, in cui il mettersi in gioco è una dimensione che spesso travalica i limiti del campo da basket.

Carolina Pernigo