di John Steinbeck
Bompiani, ottobre 2016
Uomini e topi, liberamente
ispirato a fatti di cronaca risalenti agli anni ’20 del ‘900, è il sesto
romanzo di John Steinbeck, pubblicato negli Stati Uniti nel 1937 e
giunto in Italia, attraverso la traduzione di Cesare Pavese per Bompiani,
nel 1938. Ascrivibile al filone della letteratura
proletaria, insieme a La battaglia del 1936, e Furore del
1939, questa novella, composta da sei capitoli brevi e concisi, prende il titolo, Of mice and men in lingua originale, da un verso dell’opera A un
topo, buttandogli all'aria il suo nido con l'aratro del 1785 di Robert
Burns, in cui l’autore, per l’appunto, si duole per aver distrutto, lavorando
in campagna, la tana di un topolino: da tale episodio trarrà origine una
riflessione estremamente puntuale, e completamente adattabile all’opera di
Steinbeck, sulla condizione dell’essere vivente il quale, sia esso un uomo o il
più piccolo degli animali, a dispetto di ogni piano ordito, è in balia
dell’aleatorietà degli eventi.
La trama, per la verità, è molto
semplice: il lettore è testimone dell’ultimo capitolo dell’amicizia nata
negli anni della gioventù tra i due protagonisti, George Milton e
Lennie Small. Il primo, eroe mingherlino e nervoso, è il cervello del duo,
quello che ordisce e pianifica ogni mossa; il secondo, lavoratore instancabile
e vero e proprio monstrum naturae, ha una mente bambina nel suo corpo di
adulto. È chiaro, fin da subito, che i due hanno un repertorio ben preciso e
definito di battute, fatte da un fitto botta e risposta, in cui, volta per
volta, George, nel suo intimo compiacimento, è costretto a scendere a patti con
Lennie come un padre farebbe con suo figlio (tant’è che uno degli uomini che
conosceranno, Slim, spesse volte simbolo di saggezza, affermerà, una volta
conosciuto Lennie «Cristo […] è come un bambino» (p. 69)). I due sono
complementari e allegorici: Lennie, che dimentica ogni cosa George gli dica, incarna
l’innocenza. George, il cui unico compito sembra dover ripetere a Lennie come
comportarsi per non cacciarsi nei guai, è l’uomo che, nel passaggio
dall’infanzia all’età adulta, reprime la parte bambina di sé.
Il lettore fa la loro conoscenza
quando i due giungono «poche miglia a sud di Soledad» (p. 23), dove «il
fiume Salinas arriva a lambire i fianchi delle colline e scorre verde e
profondo» (p. 23). I due amici sono, infatti, dei migranti ai margini della
società, dei bindlestiff, che provengono dall’Oklahoma e si recano
in California negli anni della Grande Depressione e procedono di ranch
in ranch in cerca di lavoro stagionale per sbarcare il lunario. George e
Lennie, infatti, custodiscono come un tesoro un sogno ben preciso: lavorare
sodo per accumulare abbastanza denaro da comprare un appezzamento di terra e
vivere dei suoi frutti: «vivremo là, sarà casa nostra» (p. 85), «ma saremo a
casa nostra, e potrò lavorare a casa nostra [...] perché nessuno può
cacciarti» (p. 87) sono solo alcune citazioni da esempio. Dopotutto anche
in Furore troveremo l’idea dell’importanza, per un uomo, di avere una
casa che senta come propria:
Se un uomo ha una piccola proprietà, quella proprietà è lui, è parte di lui, è fatta come lui. Se la sua proprietà è grande quanto basta per camminarci sopra, e coltivarla, e rattristarsi se non rende e rallegrarsi quando arriva la pioggia, quella proprietà è lui, e in fondo lui diventa più grande perché quella proprietà è sua. Anche se non si arricchisce, è grande perché ha quella proprietà. (p. 52)
Se la modalità di raccontare è
ascrivibile al non-teleological thinking (un modo di procedere
scientifico nelle intenzioni in cui la scrittura diventa un reportage e dove
non si attribuiscono scopi o fini agli eventi), allo stesso tempo l’autore
dissemina il testo di segni che prefigurano quello che accadrà caratterizzando
il testo, a partire dalla descrizione dell’ambiente in cui i due si trovano,
come un’allegoria della condizione umana all’interno di una cornice dal sapore
scritturale. Ciò lo dimostra la ripetuta menzione dell’albero del sicomoro,
chiaro elemento biblico (legato all’episodio, narrato nel Vangelo di Luca, in
cui Gesù arriva a Gerico) che, nelle prime pagine, catapulta il lettore ed i
due protagonisti all’interno di un paradiso terrestre che, purtroppo, ben
presto verrà abbandonato. Non è un caso, infatti, se George condivide il
cognome con il poeta inglese del XVII secolo, John Milton, autore del
poema Il paradiso perduto.
È solo una volta che i personaggi sono giunti nel nuovo
ranch, facendo simbolicamente ingresso nella società, che il racconto entra nel
vivo dell’azione. Qui l’umanità che i protagonisti si ritrovano ad
affrontare si divide in due grandi categorie: vincitori e vinti. Va da sé che è
la seconda categoria quella più popolosa, dove si raggruppano tutti i
braccianti, votati ad un’individualità ferina che non lascia posto
all’amicizia, unica vera fonte di forza e appartenenza. Tra i vincitori,
invece, abbiamo Curley, il figlio del capo, ometto prepotente ed arrogante il
quale, riflette Candy,
poniamo che Curley salta addosso a uno grosso e gliele suona: tutti a dire quant’è in gamba Curley. Ma poniamo che fa la stessa cosa e viene suonato: allora tutti a dire che quello grosso doveva menare uno della sua stazza. […] Non mi è mai sembrato giusto. È come se Curley non desse scampo a nessuno. (p. 51)
E ogni personaggio, anche il più
reietto, come il nero Crooks, voce del disincanto, svetta nella sua individualità perché «forse in
questo dannato mondo ognuno ha paura dell’altro» (p. 60), dice di nuovo Slim. Ma è proprio questo individualismo sfrenato a cozzare con il legame di
amicizia tra Lennie e George che si propagherà come un virus, contagiando anche
gli altri braccianti, conquistati dalle fantasie di appartenenza e radicamento
che Lennie, mente bambina, non sa non spifferare. E questo inno all’amicizia,
nel proprio intimo, è condiviso proprio da tutti, anche dallo scostante Crooks,
il nero, il quale
riconosce che «un uomo ha bisogno… di qualcuno vicino […] un uomo diventa pazzo
se non ha nessuno» (p. 101).
Nel ranch gli eventi si susseguono con grande intensità e ci portano all’atto conclusivo in alcune delle pagine più struggenti della produzione di Steinbeck, dove l’uomo, l’umano, rimane al centro di tutto, riecheggiando il noto verso del commediografo romano Terenzio, che già nel 165 a. C. riconosceva, nella natura umana, l’impossibilità di essere estranei a tutto ciò che le appartiene.
Leggere Uomini e topi, a
quasi novant'anni dalla sua pubblicazione, riesce ancora a far immergere il lettore in
una storia in grado di sondare le sfaccettature dell'animo umano e la complessità delle
relazioni, in un mondo dove i sogni possono precipitare a contatto con la realtà, come dei moderni Icaro
che hanno osato sognare troppo in grande. Un romanzo breve che sembra espandere
i propri confini ben oltre le sue 139 pagine grazie a un’universalità che ne fa da
eco.
Corinna Angelucci
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