Pong
di Sibylle Lewitscharoff
Del Vecchio Editore, giugno 2021
Traduzione di Paola Del Zoppo
pp. 151
€ 16,00 (cartaceo)
«Pong vuole diventare un uomo tranquillo e cortese. Tranquillo e cortese, bahbahbah, il ben noto coro di rane. Ancora meglio, cerca sempre di entrare in contatto il meno possibile con il pavimento, quindi in futuro, sotto le suole delle sue scarpe, compaiano cortesemente vortici di banconote, ovunque vada, blu verdi rosse, ecco, questo è ciò che davvero desidera». (p. 25)
Di cosa parla Pong, di Sibylle Lewitscharoff? Rispondere a questa domanda è complicato. Se poi ci si aspetta una trama lineare con una struttura chiara e precisa allora siamo davvero fuori strada. Pong, il romanzo d'esordio che nel 1998 valse alla scrittrice tedesca il prestigioso premio Ingeborg Bachmann, rappresenta un vero e proprio viaggio nella psiche di un pazzo. È una discesa grottesca nella mente di un individuo che rifiuta il mondo e se ne costruisce uno a misura dei propri deliri – un delirio fatto di rigetto del corpo, pulsione paternale, e desiderio di controllo assoluto sulla realtà, anche biologica. Ciò che più colpisce durante la lettura, però, è come l'autrice – con un linguaggio denso e ricco di neologismi – riesca a rendere inaffidabile non solo il protagonista, ma persino il narratore.
Pubblicato in Italia da Del Vecchio Editore nel 2021 – e tradotto magistralmente da Paola Del Zoppo che, della stessa autrice, ha curato anche Apostoloff e Il miracolo di Pentecoste (2022) –, Lewitscharoff scrive Pong come se stesse inseguendo una febbre interna: il ritmo è convulso, le immagini si accumulano, le frasi si susseguono senza una connessione apparente. Si ha l’impressione, dopo qualche pagina, di trovarsi davanti a un libro che vaga senza meta; la tentazione di accantonarlo per una lettura più "classica" e meno "confusa" è concreta. In realtà, il modo migliore per approcciarsi a Pong è quello di pensare a un esercizio di scrittura raffinato e imprevedibile, nel quale il personaggio, un Eraserhead dei giorni nostri – tanto per omaggiare un maestro della follia come David Lynch –, accompagna il lettore verso un finale rivelatorio e inaspettato. Il consiglio è di tenere duro fino alla postfazione di Paola Del Zoppo, che offre una chiave interpretativa utile a sciogliere i dubbi – perché ne sorgeranno, di dubbi –, e immergervi in questa scrittura schizofrenica senza badare troppo al plot.
I richiami e i temi che Lewitscharoff affronta sono molteplici: la religione, la mitologia, la psicosi tratta da Daniel Paul Schreber nel suo Memorie di un malato di nervi, i "bottoni" di Ilse Aichinger (Knöpfe, 1953), solo per citarne alcuni. La distorsione che si scatena nella testa del personaggio rimanda all'atmosfera allucinata in The Lighthouse, film diretto da Robert Eggers nel 2019. Tuttavia, mentre il famoso monologo di Thomas Wake – il guardiano del faro, interpretato da un sublime Willem Dafoe – dura per tre minuti buoni, qui la follia scorre lungo tutto il libro:
Pong non smette mai di meravigliarsi di ciò che gli viene mostrato. Sarà poi un uomo quello seduto immobile nella casetta di vetro? Sì e no. Sì, è un uomo. No, a sua volta non lo è. (p. 68)
Una contraddizione continua: questo è il Pong che ci viene descritto da una lingua "malata", lirica e, al contempo, grottesca; una voce narrante che, fino all'ultimo, si dimostra come sua alleata fedele, tentando di convincere il lettore che «fin da lontano tutto riporta a lui, tutto è destinato a lui» (p. 69).
Nella parte conclusiva, il protagonista realizza il sogno che cova dalla prima pagina: diventare padre, popolando il mondo con una nuova specie. E attenzione, il verbo covare non è lì per caso... Pong è un libro che si attraversa, si subisce e, una volta giunti alla fine, si capisce che la meta forse non era capirlo, ma sopravvivere al viaggio.
Leonardo
D'Isanto
Social Network