di Barbara Cagni
Fazi, luglio 2025
pp. 260
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Per lungo tempo, la lotta partigiana è stata ritenuta un affare maschile. Dalla Storiografia fino alla letteratura sulla Resistenza, si raccontava l’eroismo più o meno eclatante dei partigiani uomini. Questo, però, non significa che non ci siano stati esempi di racconti al femminile sulla Resistenza, basti pensare a L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Negli ultimi anni, invece, sembra che si stia riscoprendo la lotta partigiana al femminile, e così anche il ruolo delle donne nella Liberazione. È da questa riscoperta che inizia L’alba della nostra libertà di Barbara Cagni, un romanzo in cui diverse voci raccontano l’esperienza partigiana e il dramma della Guerra.
L’8 settembre del 1943 l’Italia è divisa tra l’esercito nazifascista e quello degli Alleati. Quella data, però, non comporta solo un inasprimento, semmai ce ne fosse stato bisogno, delle morti e delle deportazioni, ma anche una grandissima confusione nei civili, che non compresero più da chi si dovevano difendere. Se da una parte l’Armistizio confonde gli animi, dall’altra, in molti credono alla fine della guerra. Rientra tra questi ultimi Mariolina, una delle protagoniste di questa storia. Marilù è una ragazza che, dopo anni passati a vendere il proprio corpo, si ritrova a gestire il Sit de Pioeucc a Milano, una casa di tolleranza dove passano «operai, tranvieri, impiegati e soldati» (p. 15), ossia sia fascisti sia partigiani. Il casino di Marilù diventa ben presto uno specchio dell’Italia a lei contemporanea, perché in quelle stanze dove si compra l’amore i partigiani milanesi iniziano a organizzare la lotta armata. Marilù, però, ha altre preoccupazioni, perché a Milano abita anche sua figlia, Cecilia, e sarà proprio la madre a farla scappare in campagna, grazie a Venera, una studentessa universitaria che sta vivendo proprio nei giorni un amore scandaloso per la concezione del tempo. Venera, però, dimostra anche una consapevolezza di sé profonda tanto che decide di unirsi alla Resistenza, intercettando anche le altre donne del palazzo dove vive, quello di Via Lulli, che in poco tempo diventa una base partigiana. Se all’inizio l’impegno di Venera e delle compagne è “limitato” a recuperare vestiti, armi e a stampare volantini, ben presto il loro impegno diventa sempre maggiore ma non senza difficoltà. Di là dal rischio quotidiano di morire, devono fare i conti anche con i pregiudizi; infatti, non sono rare le obiezioni da parte dei compagni maschi alla loro partecipazione alla lotta armata («A sparare ci pensiamo noi. È una cosa da uomini», p. 89).
«Ora la nostra battaglia è contro il nazifascismo, ma quanto tutto questo sarà finito dovremo continuare a lottare per ottenere dignità e diritti» [...]. L’uomo le aveva obbligate con la forza a obbedire e a soddisfarlo. Così era stato per le loro madri da sempre. In quel momento stavano risvegliandosi e, come loro, migliaia, milioni di altre donne che [...] spegnevano i fornelli e posavano la biancheria da cucire, si infilavano un paio di pantaloni , imbracciavano un fucile [...]. (p. 152)
In questo romanzo corale (infatti, a ogni figura femminile è affidata una voce narrante) è indubbio che le protagoniste siano le partigiane. Il significato profondo di questo romanzo sta nel titolo; L’alba della nostra libertà è la storia innanzitutto della loro lotta che si accompagna, senza mai prevalere, a quella dell’emancipazione dei diritti femminili. E sarà per davvero l’alba, il preludio, alla conquista di un diritto così importante: quello del voto. Barbara Cagni, sebbene in forma romanzata ma con personaggi realmente esistiti (come Giovanna Zangardi, partigiana e alpinista) dona nuovamente attenzione a una parte di storia che, per troppo tempo, è stata ignorata e ora, forse come non mai, è necessario ricordarla perché quelle donne, oltre a liberarci dalle forze nazifasciste, hanno dato un contributo alla nostra indipendenza. D’altronde, come racconta l’autrice, ognuna aveva una scelta: unirsi o no alle bande partigiane. A nessuna di loro, però, è mai venuto in mente di tirarsi indietro.
Per quello che avevano potuto, nei venti anni di governo di Mussolini molte donne si erano opposte al fascismo. (p. 61)
Giada Marzocchi
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