Il segreto nel nome, edito da Capovolte e finalista al Libro dell’Anno 2024 della trasmissione Fahrenheit di RaiRadio3, è il primo romanzo di Amal Oursana. La storia, autobiografica, si snoda lungo un arco temporale ampio, ripercorre il passato, indaga il presente, ricerca le origini di un nome e mostra memorie e forza tramandate di generazione in generazione, in costante dialogo. È un lungo viaggio, metaforico e non, una serie di immagini che si susseguono veloci dal finestrino di una macchina che impiega giorni di viaggio per raggiungere il Marocco dall’Italia. Tutto inizia da una storia di nomi cancellati a seguito di un censimento avvenuto circa negli anni ’50 e indetto dal protettorato francese. Il nome scelto dal primo personaggio che si incontra rappresenta un seme per le future generazioni, affinché possano ripercorrere e ritrovare le proprie origini. Al Salone del Libro di Torino abbiamo incontrato l’autrice che ci ha condotto nel vivo del suo romanzo.
Questo è il tuo primo romanzo. Ci racconti come è nato?
È nato da una necessità, quella di comunicare una realtà che stavamo vivendo mio fratello ed io come figli di seconda generazione. Stavamo già un po’ raccontando attraverso il teatro questa realtà, però non era soddisfacente per me, perché tra il pubblico non c'erano ragazzi ma solo persone adulte e io volevo arrivare anche alle nuove generazioni. Ho quindi iniziato a scrivere dei dialoghi, dialoghi di vita quotidiana della mia famiglia, dialoghi tra me e mia sorella, tra mio padre e mia madre; dialoghi emblematici che contenevano un po’ il succo di questa crisi, e dico crisi perché gli adolescenti di seconda generazione vivono qualcosa di forte e di intenso dovendo combinare due culture, che alle volte sono anche contrastanti.
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Il segreto nel nome di Amal Oursana Capovolte, 2024 pp. 280 € (cartaceo) € (ebook) Vedi il libro su Amazon |
È autobiografico: c'è tutta la mia famiglia, i personaggi sono veramente i miei familiari però ho dovuto adattare la storia per trovare delle soluzioni narrative che alla fine sono lontane dalla mia famiglia. Quando poi, dopo qualche anno, ho ripreso in mano questi dialoghi non sapevo cosa farne perché il teatro non lo volevo più fare, non era la mia strada. Così ho pensato: “se deve essere un romanzo, un'opera scritta, bisogna che parta con una cornice più ampia”. Ho quindi deciso di partire dal passato, parlando di mio nonno.
C’è un'espressione che mi è mi è piaciuta tantissimo e di cui vorrei che mi parlassi. A pagina 170 dici «a ogni modo bisogna cercare di essere se stessi e capire chi si è veramente al di là delle identità appiccicate dall'esterno». Come si convive, da figli di seconda generazione e in Italia, con queste identità appiccicate dall’esterno, da altri?
Be’, piuttosto male, un po’ come se ti dessero un vestito stretto che non è il tuo e tu cerchi di adattarti a questo vestito in ogni modo ma poi sei costretta a togliertelo e dire “no, non sono quello che tu vuoi che io sia”. In Italia – e l’ho vissuto personalmente – c'è anche la difficoltà di pronunciare un nome che non è italiano. Ogni volta che mi presentavo come Amal diventavo immediatamente Amelia e io l'avevo addirittura accettato questo nome, pensa!
Da lì sono nate tante consapevolezze, più risvegli, e ho capito che più ti cerchi per quello che sei, più ti rendi conto che le etichette che ti hanno messo addosso sono tante. Non è sicuramente facile decostruire.
Infatti riflettevo e mi domandavo: appartenendo a più culture e sentendoti te stessa in diversi mondi, è stato difficile trovare un modello letterario a cui potersi ispirare per il tuo libro? A chi devi parte del tuo modo di scrivere?
Devo molto sia alla cultura marocchina che a quella francese. Ma è anche vero che fortunatamente ho avuto una famiglia che mi ha insegnato a non vergognarmi delle mie origini e a sentire che sono un essere umano, e che come essere umano non importa dove sono nata, perché ciò che conta è essere internazionale, cittadina del mondo, universale. Come modelli letterari a livello tematico, sull’avere una doppia appartenenza, mi hanno molto influenzata i francesi, come Tahar Ben Jelloun, ma anche l’inglese Zadie Smith che ha scritto Denti bianchi. Come modello letterario in senso stretto, confesso di essermi ispirata a Raymond Carver, perché capivo che la storia che stavo scrivendo era molto complessa. Ero partita con le poesie però in quel momento si trattava di scrivere un romanzo, che come dicevo prima era una vera a propria necessità per me. Adeguandomi alla necessità ho cercato una scrittura semplice, che si capisse e avesse un filo narrativo armonioso, per parlare di qualcosa che parte da molto lontano per arrivare ai giorni e tempi nostri. Avevo bisogno di una scrittura come quella di Carver.
Un altro elemento che mi è piaciuto veramente tanto è che tu descrivi la società marocchina come molto matriarcale, un posto dove le donne si prendono cura l'una dell'altra, di generazione in generazione e sono un vero e proprio pilastro non solo della famiglia ma anche della società. C’è questa bellissima immagine, che mi è rimasta impressa, della mamma che abbraccia un albero e in qualche modo si sente connessa con tutto ciò che le sta intorno. Esiste una connessione tra la società matriarcale e il mondo naturale e vegetale?
Sì, decisamente, perché il Marocco è un paese molto animista. In origine le popolazioni autoctone del Marocco erano i berberi: prima che arrivassero gli arabi e islamizzassero la popolazione i berberi erano un popolo matriarcale molto legato alla natura. Questo elemento emerge sicuramente in modo forte nel mio romanzo, e credo rispecchi un mio desiderio, cioè che l'umanità si riconnetta alla natura e ristabilisca quel ponte e legame che noi abbiamo spezzato ormai da tempo. Ci tenevo a inserire questo elemento che riguarda la figura femminile e in realtà è venuto anche naturale perché sono talmente innamorata di mia madre che l'ho descritta per com'è lei veramente, la donna che mi ha insegnato a pregare attraverso l'abbraccio degli alberi. “Albero” in arabo si dice shajara, che è una parola femminile: colei che si innalza al cielo per arrivare al mondo divino come una preghiera. Ti dirò di più: mio nonno, Al Kabir, non ha scelto Ibn Mashish come cognome, ha scelto Oursana, che è il nome di un albero dove lui si sedette per cercare questo cognome.
Il tuo romanzo si apre subito con la figura di tuo nonno e della ricerca del nome. Ho poi avuto l'impressione che in qualche modo la questione del nome rimanesse sempre in sottofondo e non si trovasse mai la soluzione al segreto di questo nome. È una metafora per dire che quando si riesce a trovare un posto nel mondo, in cui amare ed essere amati, non è in fondo così necessario avere un nome e verbalizzarlo?
Grazie di questa domanda, è interessante perché non me l'aveva fatto notare nessuno fino ad ora. In effetti il romanzo finisce con una piccola suspence di una delle protagoniste che è certa che incontrerà a breve il maestro ma forse il segreto, come tutti i segreti, deve ancora svelarsi. Forse una soluzione non c’è, rimane - appunto - segreto.
Viviamo in un momento storico molto ricco e florido dal punto di vista della ricerca e dello studio sul razzismo e sulla decolonialità, forse troppo spesso portato avanti da uno sguardo bianco. Quando si parla dell'emersione delle voci marginalizzate mi sono spesso chiesta se questo studio possa risultare in qualche modo imposto e portare paradossalmente a una chiusura. Voci fino ad ora marginalizzate e poco ascoltate potrebbero non avere alcuna voglia di emergere, proprio perché viene chiesto loro di farlo con forza. Da un lato ci sono filoni di ricerca fondamentali, dall’altro il rischio che sia vissuto come una forzatura…
Vero, mi viene in mente un episodio della mia vita a tal proposito. Sono cresciuta a Modena, che è una città molto attenta da un punto di vista sociale e dell'integrazione. C'era un centro stranieri molto attivo e a un certo punto hanno voluto realizzare una mostra fotografica che si chiamava “Altri volti”, cioè i nuovi volti di Modena, e chiedevano a tutti gli stranieri di essere fotografati. Ricordo che mi aveva irritato tantissimo. Avevo chiesto ai miei genitori di non farsi fotografare, e questo perché sì l'ho vissuto come un additamento: “eccoli, sono loro i nuovi volti!”. Mi strideva, così come può essere stridente dare voce a qualcuno che non ce l'ha in un modo un po’ troppo fenomenico. Credo che dovrebbe invece essere nella norma un ascolto inclusivo e quotidiano, e questo riguarda tutte le categorie delle persone ai margini, non solo gli stranieri.
Ora è necessario scrivere un'altra pagina e passare ai fatti, cioè non tanto a un'integrazione quanto a una considerazione, quotidiana e non frammentata lungo eventi ad hoc.
A scrivere questa nuova pagina potrebbe essere proprio la letteratura? Può avere una responsabilità nella presa di consapevolezza e considerazione?
Certo, tutte le forme d’arte, anche il cinema e il teatro, che però è un’arte più effimera, mentre il film ha la possibilità di essere visto e rivisto e in questo somiglia, in termini di immediatezza, alla letteratura, che infatti spesso cammina parallelamente al mondo del cinema. Una grande lavoro lo può sicuramente fare anche la scuola. Mi ha resa molto felice sapere che al Festival di Letteratura di Mantova c'è un gruppo di lettura di sedicenni che ha già letto il mio libro e io dialogherò con loro in quell'importante occasione. Nel mio romanzo ci sono davvero tanti temi importanti e spunti di riflessione. Quando l’ho scritto ho pensato proprio ai giovani come target, credo molto in questo lavoro e per me è un atto di maternità in un certo senso, l'ho fatto per questi ragazzi perché io ho vissuto sulla mia pelle cosa vuol dire abitare e portare dentro di sé due culture, e non è per niente facile.
Il mio romanzo vuole anche essere uno stimolo per poter costruire un modo di essere diversi. Creiamo insieme modelli diversi: possiamo essere italiani e anche qualcos'altro, in modo fluido e leggero e profondo allo stesso tempo. Non dobbiamo negarci e lasciarci trascinare dalle etichette, certo, ma allo stesso tempo dobbiamo essere liberi di esprimere chi siamo e chi vogliamo essere.
Intervista esclusiva a cura di Lidia Tecchiati
Ringraziamo l'autrice e la casa editrice per l'occasione
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