Pathemata. O, la storia della mia bocca
di Maggie Nelson
Nottetempo, aprile 2025
Traduzione di Alessandra Castellazzi
pp. 96
€ 14 (cartaceo)
€ 9,49 (e-book)
Il messaggio successivo è un fulmine a ciel sereno: una TAC ha mostrato dei tumori sul pancreas di C, e altrove. Sappiamo tutti cosa significa. J mi dice che C è stata molto chiara con il medico: Non ho paura di morire, ma non voglio altro dolore.
Sono colpita dal suo coraggio e addolorata per tutto ciò che l'ha portata a dire questa frase.
Diciassette anni di dolore, più che sufficienti e più che troppo e poi ancora più che sufficienti e più che troppo. (p. 65)
Maggie Nelson, autrice statunitense già pubblicata da Nottetempo nel 2023, prosegue il suo percorso di autrice narrativa con questo secondo romanzo, Pathemata. O, storia della mia bocca, che rappresenta - come ci dice la casa editrice - il secondo pannello del dittico già iniziato col suo primo romanzo, Bluets.
Se in Bluets l'autrice si concentrava sul colore blu come sinonimo di un percorso di dolore affrontato da un'amica (che ritroviamo anche in quest'ultimo romanzo), questa volta il percorso è il suo, il dolore è il suo, e Pathemata - questa bizzarra parola - è la cronaca di dieci anni di sofferenze per un misterioso e feroce dolore alla mandibola.
A volte mi domando a cosa avrei pensato in tutti questi anni, se non avessi passato così tanto tempo a pensare al dolore.
Poi mi ricordo che ho comunque pensato a un sacco di cose.
E poi, non sono sicura che lo scopo della vita sia pensare quante più cose possibili. (p. 48)
La narrazione corre su due piste, quella reale - concentrata sulla sofferenza, sui tentativi di risolvere il problema, sulle innumerevoli visite mediche a cui la protagonista deve sottoporsi, le conseguenti inevitabili delusioni, il rapporto col figlio e il compagno, l'amicizia con C, amica malata che sta per morire - e quella onirica, che si alterna alla prima in continuità, come se realtà e sogno fossero un'unica sostanza, tant'è che sia la protagonista che il lettore si chiedono dove finisca una e inizi l'altra.
E ci si chiede anche se quei sogni allucinati non siano solo la normale attività di un cervello che dorme, magari in situazione di normale angoscia, ma il risultato di uno sfogo di quel dolore che non riesce a controllare, a tenere a bada.
I sogni grotteschi, violenti, turbati sono solo sogni o è un modo per la donna di deviare, di interpretare?
La punta di metallo ha recapitato il messaggio - la mia lingua era sbagliata - i suoi istinti erano sbagliati. Così come le sue dimensioni.
Immaginavo di limarla fino a renderla un affare più sottile ed elegante, come si potrebbe intagliare un bastone da passeggio a partire da un tronco.
Ma una lingua non è intagliabile. Una lingua è robusta e fatta di sangue. (p. 15)
Il dolore alla mandibola probabilmente è una scusa che permette all'autrice e al suo alter ego letterario per interrogarsi sul suo ruolo di amica, di madre, di essere umano: non per niente si dice che il dolore purifica, che brucia tutto. Come si fa a vivere, o persino a pensare lucidamente, quando tutto quello che si conosce, da svegli e da dormienti, è un ininterrotto campo minato di sofferenza?
Il dolore è tiranno, non lascia spazio agli altri sentimenti: all'amore, alla tenerezza, forse all'umanità. Una persona che soffre costantemente, forse, non è nemmeno se stessa.
La scrittura è pulita, minimale, e non poteva essere altrimenti: si concentra su pochi elementi - il patimento (e da qui possiamo ricavare l'etimologia del titolo, da pathemata πάθηµατα che in greco antico vuol dire proprio "sofferenza" "patema", ma anche "emozioni" in senso ampio), la ricerca disillusa di una cura, il lutto, e nonostante questo, le parole entrano in profondità, soprattutto nei confronti di chi, quel dolore, lo conosce molto bene.
Nel testo l'autrice cita Freud che, non sapevo, morì di cancro alla mascella e alla bocca: dopo svariate operazioni, gli tolsero la mascella e fu impossibile per lui parlare. Questo è un chiaro segno metaforico di ciò che Nelson vuole dirci: se il dolore ci toglie anche la possibilità di usare le parole, cosa resta?
Mentre attraverso le varie fasi della vergogna - e ce l'ho stampata, come sempre, in faccia - mi rendo conto che la magia non sta nella lavastoviglie - è nello zampillo di sangue, nella mortificante abbondanza del raccontare. Proprio come nella teoria dei sogni di Freud - non è il sogno che conta, ma il racconto del sogno - le parole che scegli, i rischi che corri nell'esternare la tua mente. Questa è la "cura della parola" di Freud - Freud, che morì di cancro alla mandibola, per cui si sottopose a più di trenta interventi chirurgici orali debilitanti e sfiguranti. (pp. 64-65)
Consiglio la lettura del romanzo a chi ama le prose chirurgiche, brevi, dirette. A chi non ha paura di affrontare il dolore proprio e quello altrui.
Deborah D'Addetta
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