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“La cosa migliore che ho fatto come scrittore”: appunti dal Diario (non troppo) clandestino di Giovannino Guareschi

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Io assieme a un sacco di altri ufficiali come me, mi ritrovai un giorno del settembre 1943 in un campo di concentramento in Polonia, poi cambiai altri campi, ma dappertutto la faccenda era la stessa […]. L’unica cosa interessante, ai fini della nostra storia, è che io, anche in prigionia, conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: “Non muoio neanche se mi ammazzano!“.
E non morii.

Probabilmente non morii perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii.

Rimasi vivo anche nella parte interna e continuai a lavorare. E, oltre agli appunti del diario da sviluppare poi a casa, scrissi un sacco di roba per l’uso immediato. (p. 11)

Il Diario clandestino di Giovannino Guareschi, pubblicato per la prima volta nel 1949, non è poi così clandestino, e dopotutto non è nemmeno un diario, spiega l’autore nelle iniziali “Istruzioni per l’uso”. Del diario ci sono, certo, gli appunti dei giorni (i giorni della prigionia, iniziati per lui dopo l’8 settembre del 1943), ma la narrazione procede in modo discontinuo, per brevi annotazioni fulminee, o piccoli racconti destinati ai “giornali parlati”, che venivano declamati nelle baracche a intrattenimento dei prigionieri. Alla base della pubblicazione c’è l’idea che solo ciò che è stato approvato dal Lager possa essere detto, e avere davvero senso, fuori dal Lager. Ecco perché al diario vero e proprio, pur scritto durante la prigionia, Guareschi predilige quest’opera tratta dai materiali “di consumo”, gli unici che ha ritenuto degni di essere conservati, quelli in cui con umorismo e profonda umanità restituisce la quotidianità vissuta insieme ai compagni, certo di non tradirla: «credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carriera di scrittore: tanto è vero che essa è l’unica di cui non mi sono mai pentito» (p. 10). Perché la condizione degli Internati Militari Italiani, dopo l’armistizio, è paradossale e dolorosa, e in quanto tale merita di essere raccontata, e lo stesso si può dire della guerra che la incornicia, voluta da pochi e lontani, mentre i molti erano talmente vicini al conflitto da perdere di vista il quadro generale e non capire cosa si stava decidendo di loro.

Accadde dunque che io, come milioni e milioni di altre persone, mi trovai invischiato nell'ultimo grosso pasticcio che ha rattristato il nostro disgraziatissimo mondo.

Adesso io non ricordo bene come siano andate le cose: chi partecipa a una guerra di solito ha un sacco di cose da fare nel piccolissimo settore a lui affidato e non ha quindi possibilità di tenersi aggiornato sull'andamento generale della faccenda. Perciò non sa se sta vincendo o se sta perdendo, e alla fine, se ha vinto o se ha perso la guerra.

Inoltre il pasticcio risultò così grosso e così complicato che oggi, a quasi cinque anni di distanza dalla fine, la gente sta ancora litigando per mettersi d'accordo su chi ha vinto e su chi ha perso, su chi aveva torto e su chi aveva ragione. Chi erano gli alleati e chi erano invece i nemici.

Ci furono dei nemici, infatti, che si trovarono improvvisamente alleati, degli alleati che si trovarono nemici. E, alla parte esterna, si aggiunse la parte politica interna e la annessa guerra civile che fecero schierare i padri contro i figli, le mogli contro i mariti, il nord contro il sud, l'est contro l'ovest. […]
Io, insomma, come milioni e milioni di persone come me, migliori di me e peggiori di me, mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi all'inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola.

Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. (p. 10)

Allo stesso tempo, però, la prigionia diventa anche l’occasione di una riscoperta: di sé stessi, innanzitutto («fui sempre decisamente antipatico a me stesso. […] Adesso comincio a diventarmi decisamente simpatico», p. 79), ma anche di una possibile forma di civiltà realmente democratica, in cui ciascuna valga in quanto individuo, e in quanto parte di una comunità di pari in cui è riconosciuto non per il suo status sociale, ma per ciò che è, «con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà» (p. 14).

Non abbiamo vissuto come i bruti.

Non ci siamo rinchiusi nel nostro egoismo. La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie, la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli, il cupo dolore per l'infelicità della nostra terra e noi non hanno sconfitti.

Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili, uomini con un passato e un avvenire.
Ci stivarono in carri bestiame e ci scaricarono, dopo averci depredati di tutto, fra i pidocchi e le cimici di lugubri campi, vicino a ognuno dei quali marcivano, nel gelo delle fosse comuni, diecine di migliaia di altri uomini che prima di noi erano stati gettati dalla guerra tra quel filo spinato. Il mondo ci dimenticò.
La Croce Rossa Internazionale non poté interessarsi di noi perché la nostra qualifica di Internati Militari era nuova e non contemplata. […]

Non pretendevamo aiuti materiali: ci sarebbe bastata una parola. Chi avrebbe potuto dirci questa parola, o la diceva cattiva o non la diceva.

Avevamo costruito degli apparecchi radio che non esito a chiamare miracolosi […]. Ascoltammo milioni di parole in ogni lingua: non sentimmo mai una parola per noi nella nostra lingua.

Le vecchie mummie della politica pettegoleggiavano di politica al sud, mentre al nord i giovani avvelenati dalla politica si scannavano al piano e al monte.

La Patria si affacciava ogni tanto alle siepi di filo spinato, ed era vestita da generale: ma sempre veniva a dirci le solite cose: che il dovere e l'onore e la verità e il giusto erano non nella volontaria prigionia, ma in Italia dove petti di italiani aspettavano lo scaricarsi dei nostri fucili.

Fummo peggio che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà. (pp. 12-13)

Nella miscellanea si trova tutto ciò che è dell’umano: il dolore, lo scoramento; la speranza e la resistenza interiore; il legame con i compagni del campo, unici a capire davvero cosa si stia vivendo; l’amore per i figlioletti, che a casa crescono senza un padre, e per una moglie che si sa in attesa; i sogni, in grado di proiettare oltre il reticolo del filo spinato. E lo sguardo attento tutto vede, tutto indaga: la miseria e la dignità; le giornate sempre uguali, ma anche i dettagli incongrui, a volte stranianti o grotteschi; le notizie, rare, che arrivano dall’esterno; la dimenticanza dello Stato dei suoi figli prigionieri; la fame divorante e ossessiva; l’angoscia di un sole crudele che troppo di rado si mostra, di primavere che parlano lingue straniere. E se il tentativo è spesso quello di disinnescare attraverso la comicità il dramma degli accadimenti quotidiani, mai e poi mai si cerca di sminuirli. Un esempio, tra i molti che si potrebbero fare, riguarda la data fondamentale, quella che ha avviato il biennio più duro per molti italiani:

Era dunque la sera dell'8 settembre 1943, quando improvvisamente la radio comunicò che tutto era finito. Tanto è vero che, la mattina seguente, io mi ritrovai regolarmente in caserma, ma tutelato da un corpo di guardia affatto diverso da quello solito, sia come divisa, sia come armamento e sia –disgraziatamente – come nazionalità.

Anche l'estetica generale della caserma era mutata, e ciò grazie a un certo numero di proiettili di artiglieria acconciamente inseriti nei fastigi architettonici della facciata.

In altre parole: i tedeschi ci avevano catturato. «E l'epica difesa?» tu mi chiederai. Ti basti un episodio, postero mio: il più drammatico. Eravamo assediati oramai, e si attendeva da un istante all'altro l'inizio dell'attacco. Io comandavo venticinque uomini a difesa della porta carraia. Ritornò il caporale che avevo mandato al magazzino materiali.

«Quante bombe a mano hai avuto?» domandai. «Niente» rispose. «Dice il signor maggiore che, se non c'è un buono regolare, lui non dà neanche uno spillo. Non vuole grane.» «Bene» dissi. «Quante munizioni per moschetto abbiamo?» «Soltanto un caricatore a testa.» «Non importa» gridai.

«Economizzate i colpi. Ognuno miri il proprio uomo!» «E come si fa?» obiettò uno. «Sono tutti nascosti dentro i carri armati...» «Ognuno miri il proprio carro armato!» urlai.

Questo per la storia. Per la cronaca sarà bene avvertire che tutto era finito, ma nel senso che erano cominciati i guai nostri. (pp. 32-33)

L’autore alterna l’acume di un’ironia sagace e spesso sottilissima, ma non per questo meno tagliente, a passi di grande tenerezza, come quando riceve le visite oniriche dei suoi bambini, Albertino e Carlottina. L’umorista capace, del resto, è anche quello che conosce la tragedia e rispetta l’essere umano che ne è protagonista, e anche in quest’opera forse meno nota Guareschi riesce a equilibrare i due piani, a farli dialogare, rivelando la pietas che si ritroverà anche nell’epopea ordinaria di Don Camillo. Così non mancano, alternati a passi che strappano sorrisi più o meno amari, passi lancinanti che esibiscono, e accolgono, il dolore proprio e altrui, nudo e vero, senza volontà di edulcorarlo.

Questa noia incessante, come avere al collo un cappio che non si allenta. Questa miseria senza speranza, questo malessere che impregna di tristezza ogni ora del giorno e della notte. In due mesi, avvenimenti di formidabile importanza si sono succeduti incalzanti, ma qui è come buttare pietre in una pozzanghera d'acqua limacciosa: un breve turbamento nella melma, poi tutto ritorna irrimediabilmente fermo come prima, né traccia rimane. Giornate inerti, ore che si consumano una dopo l'altra (come una catena che s'inabissa nell'acqua, un anello trascinato dall'altro) e io assisto alla loro inutile consunzione con l'angoscia di chi – legato e impotente – vede fluire goccia a goccia da una vena aperta nel suo polso, il suo sangue che la sabbia assorbe silenziosamente.

Le mie ore si annullano in questa sabbia, e ogni ora mi ruba una goccia di vita, un sorriso dei miei figli, e io vedo me stesso scendere gradino per gradino la scala che non si risale mai più. Questa noia che sa di catrame come l'aria di queste giornate afose. Su di essa cadono gli avvenimenti enormi, e non la scuotono. Verrà il giorno in cui diranno che tutto è finito; ma io non godrò neppure quella che dovrebbe essere la gioia più grande, perché questa cadrà sopra la stanchezza del mio animo come un sasso sopra la melma che non dà rimbalzo. Tutto è negato a chi ha sognato troppo, a chi troppe volte, col desiderio, ha superato le vette della realtà. (p. 108)

Il Diario clandestino di Giovannino Guareschi è un testo da riscoprire, sia per chi conosca già l’autore per aver sorriso insieme a lui, con bonarietà, di Peppone e del suo Don Camillo, sia per chi ancora non abbia letto niente di suo. Non c’è infatti la minima incongruenza tra le diverse componenti della sua opera, né tra i contenuti dei suoi scritti e lui stesso, e leggere queste pagine è un modo per conoscere lui, e per avvicinarsi all’interezza della sua produzione. Allo stesso modo, alcune delle sue annotazioni restituiscono con forza straordinaria la verità dei campi di concentramento nazisti, e possono essere affiancate senza timore a tanta più nota letteratura neorealista e resistenziale, pur senza voler imporre al testo l’appiattimento su un genere o su una forma, che andrebbero certamente stretti a chi ha fatto della ricerca della libertà uno dei suoi più importanti obiettivi.

a cura di Carolina Pernigo

 

Edizione di riferimento: Giovannino Guareschi, Diario clandestino (1943-1945), Milano, BUR, 2019.