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Tra testimonianza personale e racconto di lucida oggettività, "Triste tigre" è un tuffo nella storia di abusi sessuali dell'autrice Neige Sinno

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Triste tigre
di Neige Sinno
Neri Pozza, 2024
 
Traduzione di Luciana Cisbani
 
pp. 240
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Una cosa però è vera, quando si riesce a parlare di trauma, vuol dire che si è già un po’ salvi. Ciò non significa che siano la parola o la letteratura a costituire la terapia. Al contrario, la scrittura può avvenire solo quando il lavoro, una parte del lavoro, è stato fatto, quel pezzetto di lavoro che consiste nell’uscire dal tunnel. […] Se si riesce a parlarne, scrive Virginia Woolf, è perché l’evento è staccato dalla sofferenza pura, che viene vissuta nella modalità dell’irreale. (p. 71)
Triste tigre è l’ultima opera letteraria della scrittrice Neige Sinno, francese di nascita e trapiantata da molti anni in Messico. Appena uscito, il libro diventa un caso editoriale prima in Francia, dove riceve numerosi e prestigiosi premi nazionali, e poi in tutta Europa, arrivando fino a noi grazie ai tipi di Neri Pozza e aggiudicandosi il Premio Strega Europeo 2024.
Nelle circa 230 pagine di testo, diviso in brevi paragrafi che danno un ritmo battente e veloce a una narrazione già cruda e potente, Neige Sinno racconta la propria storia di bambina abusata dal patrigno, all’età di sette o nove anni e fino all’adolescenza.

Non sarebbe preciso definire il testo soltanto una franca testimonianza, né un intimo memoir, benché sia entrambe le cose, quanto piuttosto un libro ibrido, che si nutre di frammenti autobiografici, di memorie più o meno vaghe, di valutazioni personali a posteriori, ma anche di riflessioni più generali sul tema dello stupro, affiancate da riferimenti letterari sparsi, di quei grandi scrittori e scrittrici che prima di lei hanno parlato di abusi sessuali.
Nelle prime pagine del testo, l’autrice ci anticipa un intento che sembra voler dare una spiegazione a se stessa, più che a noi lettori:
volevo fare un ritratto dalla mia prospettiva di oggi, di donna diventata a sua volta madre […] Non ci riesco […] perché cerco di far combaciare i ricordi rimasti con una possibile verità oggettiva che mi sfugge, nonostante le fotografie. E poi, chiaro, è impossibile perché è lui. (pp. 14-15)
È impossibile, eppure il risultato di questo sforzo si traduce in un testo meritevole di essere prima letto e poi consigliato al prossimo. Non si tratta di una scrittura facile, né leggera, e dalle parole si avverte la fatica della narrazione, gli sforzi dell’autrice per trovare l’ordine corretto delle parole, i termini giusti; ma non esistono termini giusti, solo i termini dell’abuso, soltanto le parole nude e crude per raccontare senza eufemismi una tematica che ancora oggi viene pronunciata a mezza bocca e rimane un tabù.
Nonostante l’apparente impossibilità di farne un ritratto oggettivo, Sinno riesce tuttavia a raccontare la violenza sessuale, e in particolar modo l’incesto, con una schiettezza che non lascia sottintesi. Dà così vita a un libro che si articola tra non-fiction e ponderazione saggistica, affrancandosi in molti passaggi dall’esperienza personale e cercando (riuscendoci) la distanza giusta per poter parlare “da” ma non “in quanto” vittima:
La predazione sessuale non è legata tanto al piacere fisico quanto alla relazione di dominio, cioè di potere. Il predatore sceglie questo tipo di aggressione perché è il modo di dominare e di assoggettare l’altro che oltrepassa le altre forme possibili di abuso […] Una persona stuprata è prima di tutto una persona che è stata sottomessa al giogo […] La dominazione sessuale è una forma di sottomissione che intacca le fondamenta stesse dell’essere (p. 136)

Il suo crimine rende tutto il resto della sua esistenza un’aberrazione (p. 97)
L’autrice ci riporta una testimonianza netta, in cui le parole hanno la paradossale proprietà di sembrare pazientemente misurate e, al contempo, sgorgate da un getto creativo spontaneo, senza rifiniture, come se tutta la scrittura fosse già stata pronta per uscire fuori, o come ha affermato l’autrice: questo libro è una sorta di tuffo nella sua testa. Navighiamo nel mare frastagliato dei turpi ricordi e delle sue considerazioni di adesso. Leggiamo il ritratto di un uomo con gli occhi della bambina di allora e dell’adulta di oggi, tentiamo di immedesimarci nel suo sentire, nei suoi continui ritorni a una narrazione lucida e consapevole, non confessionale, ma da critico esterno.
Sinno torna spesso su questa scissione tra soggettivo e oggettivo, parlando di dissociazione, di ricordi sfuocati, di scarsa memoria ad apprendere nuove cose, perché «c’è spazio solo per dei ricordi molto precisi, su cui non ho il controllo» (p. 147); una scissione che l’ha aiutata a superare, a non cadere, dovuta anche grazie ai libri, ai suoi maestri che cita costantemente.
Quella che non è riuscita a reggere è andata dove doveva andarsene, l’altra, quella che ha voluto rimanere, sono io. Ma la scissione non è così semplice e ci ricordiamo costantemente una dell’altra. Perché la mia parte maledetta non è andata poi così lontano, sento spesso il suo respiro corto, la voce spezzata, vedo il suo riflesso negli specchi, si insinua nel mio sonno. È sempre lì, anche lei, ad aspettare chissà cosa (p. 137).
Perché le conseguenze di uno stupro non riguardano soltanto la sfera della sessualità, ma vanno a ledere tutto ciò che rende un individuo tale, la capacità di «respirare fino a quella di rivolgersi alle persone, ma anche di mangiare, lavarsi, guardare immagini, disegnare […] di percepire la propria esistenza come una realtà» (Ibidem).

L’opera di Neige Sinno merita una recensione che si concluda con un tocco crudo ma positivo, o che quantomeno emani quel sentimento di forza che dà alla vittima la capacità di diventare protagonista attiva e non subente. Una frase inserita verso la fine del testo, in un eloquente paragrafo intitolato “Venirne fuori”, e che non appartiene all’autrice (bensì a Sartre), ma è stata adoperata in questo volume, come anche altre citazioni e riferimenti esterni, con profonda esattezza, per ricordarci il punto di vista della scrittrice in merito alla letteratura – che la letteratura non è la salvezza dai traumi psichici, né la scrittura una valvola di scaricamento della propria sofferenza; aiutano, ma a contare per davvero è la propria identità:
Io ho voluto crederci, ho voluto sognare che il regno della letteratura mi avrebbe accolta come una delle tante orfane che vi trovano rifugio, ma neppure attraverso l’arte si può uscire vincitori dall’abiezione. La letteratura non mi ha salvata. Io non sono salva. […] L’importante non è ciò che hanno fatto di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi. (p. 165)
Federica Cracchiolo