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"Gelo", un romanzo che sublima la ricerca dell'irraggiungibile in un personaggio tormentato e sui generis: il pittore Strauch

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Gelo
di Thomas Bernhard
Adelphi, gennaio 2024

Traduzione di Magda Olivetti

pp. 356
€ 20 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)

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Parto subito col dire che questo non è un romanzo facile da leggere. Lo stile di scrittura, il flusso di coscienza, la sintassi, le atmosfere glaciali dell'ambientazione sembrano quasi respingere il lettore. Di fatto è uno di quei testi che si lascia manipolare poco, anzi, è esso stesso a manipolare chi legge.

Intanto questo romanzo ha un esordio coi fiocchi: come ci racconta la casa editrice, appena pubblicato nel 1963 (e vi assicuro che pare scritto cent'anni prima) conquistò il mondo letterario proprio per la sua originalità, che al giorno d'oggi si potrebbe valutare non più così tanto originale, considerati tutti i romanzi di matrice psicologica e con personaggi disturbati che sono stati pubblicati nel corso di questo lasso di tempo; eppure, non è propriamente così, perché davvero lo stile di Bernhard non ha eguali.
È l'insicurezza che sprona gli uomini alle grandi imprese, grazie ad essa uomini che in realtà non erano fatti per nessuna cosa, sono diventati capaci di tutto. Gli e-roi sono il prodotto dell'insicurezza. Vale a dire di uno stato d'ansia, di paura, di disperazione. «Senza parlare delle creazioni dell'arte». Non è la sicurezza a regnare, ma la stoltezza, l'inettitudine, l'ordinario, non lo straordinario. Queste osservazioni le fa durante il pranzo. Rifiuta la carne di manzo benché l'abbia ordinata lui stesso e chiede della carne affumicata. La moglie dell'oste porta via la carne di manzo e scompare. Abbiamo un tavolo tutto per noi, mentre la sala è piena. E impossibile farci stare una persona di più, vien da pensare. Seggiole che normalmente stanno in cucina vengono portate in sala e sistemate lì, la grande panca viene tirata fuori da sotto alle finestre e allungata di due metri. Alla fine si mettono anche accoccolati per terra, seduti su assi di legno prese da qualche cassa e posate sopra secchi non ancora svuotati. E venerdì, penso. (p. 31)

Intanto la trama: condotto con una narrazione in prima persona, uno studente in medicina senza nome riceve dal suo superiore un incarico "segretissimo", ovvero redigere un puntuale ed esaustivo fascicolo sulla condizione fisica e psichica di suo fratello (che non vede da anni), il pittore Strauch.

L'artista vive a Weng, un paese montano dove il gelo ingoia ogni cosa, oggetti, persone, sentimenti, ogni parvenza di calore vitale. Si percepisce chiaramente addosso la cupezza e l'impermeabilità assente di un luogo che potrebbe trovarsi ovunque nel mondo - nel mondo freddo, intendo - quindi sulle Alpi, in Norvegia, in Siberia, al Polo Sud. Dunque i due uomini si incontrano, quasi per caso, e intraprendono una lunghissima conversazione che sa di flusso di coscienza: difatti sarà quasi solo Strauch a parlare, in un delirio filosofico e parecchio strampalato tipico di un genio pazzo, o solo di un pazzo.
In questo senso, e con la dovuta distanza per quanto riguarda le tematiche, mi ha ricordato molto Melancholia di Jon Fosse che avevo recensito qui

Lui ha detto: « Si riusciva a udire il fiume fin quassù. Nessun rumore di macchine. Nulla. Né canti di uccelli, naturalmente. Nulla. Come se tutto fosse irrigidito sotto a una coltre di ghiaccio». Si era trovato « in un mondo che assomigliava in modo approssimativo alla realtà». Col suo bastone aveva esorcizzato mostri di neve e di ghiaccio. S'era lasciato cadere a braccia e gambe divaricate sull'immacolata coltre di neve. « Come un bambino». Era rimasto disteso così finché non aveva raggiunto lo stadio in cui si crede di dover congelare all'istante. «Il gelo è onnipotente» ha detto. Si è seduto. Ha detto: «Non vi è nulla di più inconcepibile del fatto che io stia facendo colazione». I tipi mattinieri, se escono e si mettono in cammino, possono ammirare un gelo magnifico e crudele. « La scoperta che il gelo s'impadronisce di tutto non è affatto spaventosa». (p. 48)

La trama si sviluppa in un arco di tempo di ventisette giorni, giorni in cui succedono quasi sempre le stesse cose: una vita insopportabile, l'amarezza di un uomo ormai anziano intrappolato in un luogo (non solo fisico, ma anche mentale) buio e profondo, le ossessioni, i traumi, la pletora di personaggi secondari e comparse che fanno da corollario - la moglie dell'oste, lo scuoiatore, l'ingegnere, la ragazzina che regala il suo corpo al figlio del casellante - la mancanza di empatia per ognuno di loro.
Queste sono tematiche care all'autore che in tutti i suoi testi sottolinea il suo ribrezzo per la società, la sua (forse) depressione, la morte, il suicidio, l'infanzia e la profonda impronta che lascia, la malattia, la famiglia, lo Stato, la paura della vecchiaia, la grande Storia.
Bernhard condensa tutto in questo vorticoso seppur lento romanzo, fino alla sua tragica risoluzione.

Come dicevo in apertura, non è un romanzo facile da leggere: ci fa pensare a ciò che non vorremmo pensare, cioè al fatto che, a volte, tutti noi viviamo in una prigione invalicabile, noi stessi, e che la ricerca dell'irraggiungibile può causare lampi dei genio e grandi felicità, ma anche frustrazione, depressione, profonda angoscia, in alcuni casi la morte.
Lo consiglio a chi ama le letture molto profonde, dolorose, enigmatiche e le ambientazioni fredde.

Deborah D'Addetta