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«Campi di steli infranti». Ritrovarsi nel tempo della malattia: "L'estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi" di Tatiana Țîbuleac

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L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi
di Tatiana Țîbuleac
Keller, 2023

Traduzione di Ileana M. Pop

pp. 274
€ 18,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

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Per sette anni Aleksy è rimasto all’istituto. Sette anni e nulla è cambiato. Non la morte della sorella, non la rottura tra i genitori, non la rabbia che lui si porta dentro, e che troppo spesso rivolge verso l’esterno come un proiettile. La madre, in particolare, appare la vittima predestinata di ogni strale, da quando la scomparsa della figlia ha allontanato il padre alcolista e violento, e reso lei atona e distante, e il primogenito, superstite, ai suoi occhi, «uno spazio vuoto» (p. 39). Non c’è qualità negativa che non le venga attribuita: è bassa, grassa, stupida, brutta; è inutile, detestabile; veste malissimo; ha la pelle bianca e innaturalmente liscia, che fa di lei una bambola grottesca. Ha, soprattutto, la colpa di averlo messo al mondo, lui – prodotto ripugnante di una donna ripugnante. Aleksy la cambierebbe con «qualunque altra madre al mondo» (p. 16), la ucciderebbe in mille modi violenti e brutali.

La verità è però più sfaccettata di quanto lui stesso non voglia ammettere. Progressivamente, vengono lasciati cadere qui e là cenni a un punto di vista differente, aspetti che permettono di vedere la donna sotto una prospettiva meno impietosa: la sua generosità, la volontà di lottare per l’affidamento del figlio durante un brutto divorzio, l’espressione sempre meravigliata che cattura e, soprattutto, quell’elemento incongruo, straordinario, uno «sbaglio» sul suo volto: due improbabili e bellissimi occhi verdi, che poco alla volta iniziano a rivelare sempre di più su di lei.

Ci si mette un po’ a entrare in confidenza con il linguaggio vivido, brusco, iperbolico dell’io narrante, con la tensione espressiva creata da una miscela esplosiva di rancore e cinismo – da lui rivolta dapprima contro la madre, contro la scuola, e il mondo in generale, e poi, in modo sempre più evidente, contro se stesso.

Provai schifo per Kalo, per Jim, per me stesso. Eravamo scarti umani – polipi e cisti, e per di più asportati – con pretese da reni e cuori. (p. 12)

La casa in cui la madre lo invita a passare l’estate, il tempo della malattia di cui inizialmente tutto si ignora, diventa lo spazio in cui è possibile imparare a conoscersi di nuovo. Fin da subito la struttura illogica, irregolare, dell’edificio lo rende, anche simbolicamente, il luogo adatto al cambiamento. L’aria che vi si respira è densa, dolce. La casa si fa ventre caldo, luogo in cui restare intrappolati, o da cui rinascere. Il rancore si diluisce, quasi contro voglia: «In quel momento sentii – in modo doloroso e repentino – che per via di quel vestito bianco non la odiavo più così tanto” (p. 59).

Dalle pagine emerge subito un contrasto tra un allora e un adesso, nel mezzo quindici anni di cui si scopre a sprazzi, attraverso le libere associazioni dell’io narrante. Nel passaggio tra quell’estate e il presente, tante cose sono cambiate: c’è stata l’arte, c’è stato l’incidente, poi le droghe, gli psichiatri, la solitudine, la ricerca fallita di un nuovo equilibrio. Ci sono stati la ricchezza e il successo, ma anche un vuoto che non si riesce a riempire. Le gambe perdute, i sogni affollati, il tentativo di tornare ancora e sempre a quei giorni.

Nella finzione narrativa il protagonista adulto è diventato un artista di successo, e il suo linguaggio procede per immagini e analogie nitidissime. La sua visionarietà non perde mai però in concretezza, come in un quadro di Van Gogh, in cui i vortici di luci e colori non schiacciano, ma trasfigurano o rivelano la realtà del mondo. Il dolore di Aleksy, di fronte a ciò che la vita gli pone innanzi – la morte della sorella, la malattia della madre – è ciò che disgrega, ma anche ciò che riunisce, il filo conduttore del suo sentire, in cui si incistano, come gemme, i singoli ricordi belli, e gli occhi verdi di sua madre.

Contrapposta al malessere cinico e rabbioso del figlio è l’energia creatrice della donna, che vuole strappare alla morte un’ultima estate che le consenta di «morire vivendo fino alla fine» (p. 101), e quindi fa scoppiettare popcorn come neve in mezzo alla cucina, si sdraia in mezzo ai girasoli, mangia zucchero filato, acquista tutto ciò che di più tipico il mercato rionale può proporre, offre l’amore per troppo tempo negato e prova a ricreare, nel momento in cui più vicina appare la disgregazione, l’essenza di una famiglia: 

quell’estate ci autodistruggemmo più di tutti gli anni precedenti messi insieme, eppure non eravamo mai stati più pieni di vita di così. (p. 110)

Tatiana Țîbuleac ricostruisce con una capacità straordinaria le dinamiche psicologiche che animano i due personaggi, nei diversi piani temporali. Le resistenze di Aleksy di fronte a un affetto che arriva tardivamente, e che si vorrebbe non più necessario, ma invece si desidera ancora, con ostinata riluttanza; i sensi di colpa della donna, che vorrebbe rimediare a colpe che solo la malattia rivela come tali nella loro pienezza; il tentativo di entrambi di trovare un linguaggio comune, una nuova delicatezza, di costruire ricordi di esperienze condivise; il rovesciamento che poco a poco si realizza nei ruoli di accudimento. Ma il destino gioca a dadi quell’estate, e porta al narratore non solo la madre, ma anche Moira, e non si riesce a capire se a cambiare maggiormente le cose sia l’una o l’altra, o in che misura i due diversi tipi di amore siano interrelati.

L’autrice riesce a non cedere mai alla tentazione del sentimentalismo: disinnesca il lirismo con la voce sarcastica del suo protagonista, e non promette il lieto fine. Il figlio ci dice presto di non aver seguito quasi nessuno dei buoni consigli della madre, di aver sbagliato, tanto e continuamente, di non essere riuscito a “fare le cose bene”. La degenerazione fisica legata alla malattia negli ultimi giorni è brutale, devastante, per chi la subisce e per chi vi assiste. Il lutto inevitabile arriva e trascina tanto con sé, ma non le memorie di quell’unica estate, che diventano al tempo stesso zavorra e paracadute. Il figlio cresciuto, ricco e affermato, fa della propria casa un reliquiario, della propria arte un ex voto continuo. Scrive per sublimare e liberarsi, senza riuscirvi, come avviene con i suoi quadri, che tornano sempre a immagini fulminee di quella stagione lontana.

Il romanzo di Tatiana Țîbuleac è doloroso e potente, straziante e bellissimo, un inno alla perdita e alla ricostruzione, alle seconde occasioni, ma anche alle ferite che non si rimarginano, e di cui ci si deve far carico nel corso della propria esistenza, per poterla definire tale.

Carolina Pernigo