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"La prigione" di Georges Simenon ci racconta la vita di Alain Poitaud fatta di convenzioni e apparenza

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La prigione




La prigione
di Georges Simenon
Adelphi, gennaio 2024

Traduzione di Simona Mambrini
1^ edizione in lingua originale: 1968

pp.170
€ 18 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

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Questo romanzo, scritto nel 1967 e pubblicato l’anno seguente, approda in Italia per la prima volta con Mondadori nel 1969 e per molti anni diventa introvabile; viene adesso riproposto da Adelphi, nella collana che ripubblica tutta l’opera del grande scrittore. Sono gli anni in cui lo scrittore si separa dalla moglie Denyse Ouimet, e dunque La prigione appartiene alla fase finale della vastissima produzione di Simenon e risente quindi di echi autobiografici e di una cupezza profonda e radicata, essendo, ad esempio, lo stesso Simenon un accanito bevitore e non facendo mistero delle sue numerosissime relazioni extraconiugali.


Il protagonista è Alain Poitaud ha trentadue anni, dirige “Toi”, una rivista patinata e abbastanza quotata, ha una moglie che chiama Micetta, in tono affettuoso, e nella sua vita anche tutti gli altri non meritano nomi ma appellativi, “cocco” o “bella mia” sono i preferiti. Le sue giornate scorrono tra cene conviviali e appuntamenti di lavoro, tra scappatelle occasionali e tanti bicchieri di scotch o whisky, in base all’umore.


In questo romanzo, che potremmo definire un giallo atipico, alla maniera di Simenon, forse è ancora più evidente la capacità della scrittura del grande autore belga di virare verso il romanzo sociale e psicologico; ci sono tanti elementi, molti dei quali infastidiscono, a cominciare dallo stesso protagonista, così superficiale, borioso e privo di empatia; altri fanno riflettere e lasciano esterrefatti, mentre l’epilogo tragico ci dice molto di quel confine labile che divide l’apparenza e la vita reale.


Vi è il racconto di una coppia alto-borghese, in cui il marito, editore conosciuto di riviste patinate, condivide la vita con la moglie, giornalista freelance e come lui impegnata a riempire i vuoti di una vita coniugale piatta, tutta vissuta tra cene e finta convivialità. La coppia ha un figlio di cinque anni, totalmente dimenticato dai due, che infatti vive nella casa di campagna con i domestici. Già nelle prime pagine il rampante editore viene raggiunto da un commissario, che gli comunica che la moglie si trova in carcere, per l’omicidio della sorella. 


La trasformazione del protagonista e quella che sarà la parabola verso il suo declino iniziano già nell’incipit, dove si pronuncia la domanda che l’autore cercherà di instillare nel lettore, per tutta la vicenda:

Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta?

Per Alain la transizione avviene con la consapevolezza che la sua vita è una menzogna, una magnifica costruzione di finzione e inutilità, in cui non c’è posto nemmeno per se stessi, in cui non esiste la persona che si è costruito, ma esistono quei “Toi” (voi) che danno peso all’apparenza. Così come i suoi lettori, che guardano con bramosia le foto di corpi nudi e splendidi, ammiccanti dalle pagine della sua rivista. 


La moglie, Jacqueline, così discreta e accondiscendente, tanto da meritarsi l’appellativo di Micetta, si rivela una madre che non riesce ad amare suo figlio e una donna che ha sempre detestato la sorella, eppure bravissima a raccontare i drammi degli altri, a fare inchieste, e nel privato a nascondere la sua relazione segreta e infine, nel momento in cui decide di vivere come persona e non più all’ombra del marito, si scusa di fronte a lui per l’omicidio commesso o forse per non essere stata totalmente la micetta che lui desiderava.


Quando ogni inganno è svelato, quando nemmeno il figlio sembra essere interessato a un rapporto col padre, ad Alain Poitaud, uomo così misero e così vuoto, che passa le sue mattine nei bar e non è nemmeno capace di essere il vero movente di un dramma della gelosia, in parte iniziato per colpa sua, non resta che sacrificare l’ultima parte della sua vuota esistenza e chiuderla così come l’aveva vissuta, a grandissima velocità contro l’ultimo ostacolo, liberandosi infine della paura di esistere, senza capire - in fondo - come si fa davvero.


Samantha Viva