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Un'opera profondamente umana e biografica sul rapporto tra identità e disturbo mentale: "Stranieri a noi stessi" di Rachel Aviv

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Stranieri a noi stessi
di Rachel Aviv
Iperborea, gennaio 2024

Traduzione di Claudia Durastanti

pp. 288
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Quando si parla di disturbi mentali, ci si spaventa. Si crede di avere a che fare con forze incontrollabili e non comprensibili, forze che controllano la mente, che prendono il sopravvento sull’identità, scompaginando la capacità di discernere la malattia da ciò che una persona è, dal suo sé di base, “guarito” dal malessere. A noi, cui sono più o meno note la forma e l’origine anche delle più gravi malattie fisiche, il mondo della mente, la sua natura astratta e invisibile rimangono misteriosi e, pertanto, generano inquietudine.

Rachel Aviv, giornalista affermata del “New Yorker”, mette su carta un saggio accorato, più vivido e umano che mai, la cui narrazione risuona come un grido soffocato, e pure, in qualche maniera, brilla morbidamente di luce propria. In Stranieri a noi stessi, tradotto da Claudia Durastanti, il lettore incontrerà le storie autentiche di persone
i cui confronti faticosi con la malattia mentale esulano da un “sistema chiuso e completo di verità”. Le loro vite si dipanano in tempi e culture diverse, ma condividono uno scenario: le periferie della psiche, le fasce esterne dell’esperienza umana, dove il linguaggio tende a fallire. Ho scelto soggetti che hanno tentato di superare una sensazione di incomunicabilità attraverso la scrittura. (p. 33)
Non è fiction, ma non ha il sapore di un saggio: è un racconto in cui s’intrecciano autobiografismo e biografismo, il tutto mescolato dentro a un amalgama di studi e riferimenti storiografici meticolosi sul disagio mentale, sulle cure psichiatriche dagli anni ’50 in poi, sul tabù che le malattie mentali continuano a rappresentare, su quanto sia difficile ammettere a livello sociale di star facendo un percorso terapeutico o assumendo farmaci antipsicotici, ma soprattutto sulla difficoltà di cura e di comprensione di un disturbo psichico. Rachel Aviv parla di tutto questo con audacia, esponendo prima di tutto se stessa, per poi cercare di mostrare a noi, senza giudizio e con amorevole cura, com’è quel mondo che non possiamo comprendere.

L’autrice parte dalla sua storia di bambina dichiarata anoressica a sei anni, ricoverata per sei settimane, poi “guarita”, quantomeno dimessa. «La sensazione di essermela cavata per un soffio», scrive, «ha acuito la mia attenzione verso le fasi precoci di un malessere, quando una condizione consuma e rende inabili ma non ha ancora riformulato l’identità di una persona e il suo mondo sociale» (p. 29).
Ma se non fosse andata così? Dove vanno a finire le persone che non se la cavano, a cui la malattia prende possesso dell’identità? Come continuano le loro storie? È con questa retrospezione autobiografica che Aviv decide di raccontare quattro storie su cui si è documentata tramite testimonianze, interviste, diari, lettere, persino poesie, e da cui emerge un unico dato equipollente, un analogo punto che è sia di partenza sia di arrivo, come un centro attorno al quale si vortica senza sosta, sentirsi stranieri a se stessi: una frase che Aviv recupera da un diario di Hava, la ragazzina dodicenne, anche lei con una diagnosi di anoressia, ma già “in carriera”, che l’autrice incontra durante il suo ricovero in un ospedale psichiatrico e che utilizza come titolo a questo libro. Un titolo che non soltanto racchiude la specificità di una condizione difficilmente comunicabile a chi non l’ha mai sperimentata, ma che soprattutto evoca la consapevolezza angosciosa e inevitabile presente dentro a quel “noi”, in quel pronome collettivo che mescola le carte, che ottunde la distinzione netta tra chi guarisce e chi no, come scrive Aviv su se stessa:
Quando penso alla vita che ho adesso e a quanto facilmente sarebbe potuta andare in un altro modo, come è successo a Hava, […] dentro di me si spalanca uno strano senso di abisso. Il divario tra le periferie della psiche e uno scenario che potremmo definire normale è un divario permeabile [corsivo mio], un fatto che trovo inquietante e promettente allo stesso tempo. È stupefacente accorgersi di quanto poco basterebbe per vivere, o per sfiorare, vite radicalmente diverse. (p. 35)
La prima storia è quella di Ray Osheroff, un brillante nefrologo di fama negli anni Settanta, quando inizia a soffrire di «una forma di melanconia» (p. 37) e, dopo trent’anni di assunzione di psicofarmaci, «si sentiva ancora sradicato e solo. “C’è un baratro doloroso tra quello che è e quello che avrebbe dovuto essere”, scriveva. Era un “uomo irrisolto”» (p. 70). Il suo passaggio tra vari psichiatri e istituti renderà la sua storia un caso eclatante dell’epoca per i conflitti incessanti tra le differenti metodologie psichiatriche di cura, quella terapeutica e quella farmacologica, approdando in tribunale.
 
Nella seconda storia siamo nell’India degli anni Sessanta. Bapu è una giovane donna, zoppa a causa della poliomielite, proveniente da una famiglia braminica, la casta più pura di tutte, sposatasi con un ricco pretendente. Si trasferisce con l’intera famiglia del marito in un’enorme casa dove «Nella nuova gerarchia domestica, Bapu occupava il fondo» (p. 77), umiliata e non vista. La sua vicenda si tinge di misticismo, inserendosi in quella linea sottile dentro la quale ancora oggi non abbiamo l’assoluta certezza nel differenziare la follia dalla santità. Diagnosticata schizofrenica, Bapu viene venerata come una santa, si isola dal resto del mondo, si reca presso gli ashram più sacri, ricerca una comunione con il suo amato Krishna, e sembra incarnare ciò che l’amico di Freud Romain Rolland definiva «sentimento oceanico», il «fatto semplice e diretto di sentire l’“eterno”» (p. 88). Come distinguere un disturbo mentale da una condizione mistica che fa parte integrante dello scenario culturale di un popolo? Aviv ci fa riflettere sull’importanza dell’identità culturale ed etnica e sull’uso di approcci metodologici, anche moderni, ma che appartengono a un sistema di valori radicalmente diverso rispetto a quello di pazienti non occidentali, come Bapu.

Infine le storie di Naomi e Laura, due vite all’opposto. La prima è una ragazza nera di ventiquattro anni con quattro figli, abituata alla violenza, al degrado, all’analfabetismo, cresciuta in casermoni senza l’ombra di un albero, si getta da un ponte insieme ai due gemelli neonati, uno soltanto muore, lei affronta il carcere, l’isolamento, una diagnosi di bipolarismo. Una vita in cui s’incarna, ancora una volta, la distanza culturale, in cui è lo stesso divario razzista a compromettere la salute mentale, a produrre sensazioni ossessive, di persecuzione, di lotta, la paura di «essere reso invisibile, di essere assimilato e al tempo stesso escluso dall’ordine sociale» (p. 140). La seconda è Laura, una vita ricamata negli agi, nell’opulenza, nelle elevate aspettative sociali, in performance impeccabili che si tramutano nella «solitudine pura e completa», ingabbiata «nella vita di una sconosciuta» (p. 189) e «depressa dal fatto che stava entrando in una fase di depressione» (p. 194).

Aviv cerca in tutti i modi di farci comprendere queste storie, così trascinanti, pure, disturbanti. Ma come scrive Naomi, «Puoi mettere insieme tutti gli esperti che vuoi per parlare di depressione, ma finché non ci sei passato […] non sai di cosa stai parlando» (p. 175). Ciascuno prova in ogni modo a spiegarlo e a spiegarselo, e non a caso l’autrice ha deciso di raccontare le vite di persone che hanno sentito l’impulso di scrivere del proprio malessere, ed è attraverso le loro parole che cerchiamo di farci un’idea quantomeno vaga di questa estraneità. Ho voluto riportarne qui qualcuna:
È come essere posseduti […] Le emozioni ti tengono in ostaggio e sei alla loro mercé eppure, in un certo senso, sai che non sono te. (p. 205)
Perché ho questi strati di pensiero in più che gli altri non hanno, e che mi spingono sempre più lontana dall’essere umana? (p. 188)
Avevo una tale paura di perdere il controllo (p. 177)
La difficoltà che patisco è una lezione di totale abbandono? (p. 100)
Sul finire della vita, dopo aver perso tutto, forse sono solo una crepitante foglia autunnale che vola via nel vento crudele di ottobre (p. 75)
Come posso definirmi? Chi è Ray Osheroff adesso? (p. 71)
Sono davvero così? Non lo sono? Cosa sono? (p. 62)
Stranieri a noi stessi è un libro che non può passare inosservato. Rachel Aviv scrive con un’umanità insolita per un saggio. Sono storie che entrano dentro la nostra vita e come uno specchio ci impongono di usarle per rifletterci su di esse, per guardarci con nuove prospettive. Non è uno studio sui disturbi mentali, né una spiegazione su cosa significhi essere in una condizione di malessere psichico; è piuttosto una testimonianza plumbea, eppure luminosa, sulla profondità del rapporto con il proprio essere, sull’incomunicabilità ad altri e a se stessi di questa ombra oscura e misteriosa che mette in crisi la totalità del sé, della propria identità.
Leggetelo.

Federica Cracchiolo