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#ScrittoriInAscolto - Frusciare di palme ne "La suite di Giava" di Jan Brokken

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La suite di Giava
di Jan Brokken
Iperborea, 2023
pp. 241

Traduzione di Claudia Cozzi 

€ 17,50 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook)

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Un evento

Nella cornice suggestiva della Sala Maffeiana di Verona, l’evento di presentazione de La suite di Giava di Jan Brokken inizia con saluti istituzionali d’eccezione. Il Console Generale dei Paesi Bassi in Italia inaugura quella che definisce, a ragione, una «serata di grande letteratura e grande musica».

«I libri di Brokken», continua, «sono il fiore all’occhiello della produzione letteraria olandese contemporanea. […] La sua saggistica narrativa ha conquistato in poco tempo il Bel Paese, grazie alla sua capacità di rappresentare con umanità ed empatia luoghi e personaggi». Anche per questo, osserva, Brokken ha vinto di recente il Premio Chatwin. Nelle sue opere, «la Storia con la lettera maiuscola viene esplorata attraverso una storia intima, personale». Il suo sguardo «umile e aperto» chiama tutti noi all’ascolto. E questo ascolto, in questa serata, è accompagnato da quello di un talento straordinario come Ramin Bahrami e, prima, da Albertina Dalla Chiara, che introduce la presentazione eseguendo “I giardini di Buitenzorg”, il brano di Leopol’d Godovskij da cui Jan Brokken prende spunto per la composizione del suo scritto. 


I giardini di Buitenzorg e una donna

Nel leggere La suite di Giava, il lettore si abbandona sin dalle prime pagine a un’esperienza multisensoriale. Sono infatti i rumori, i profumi, i colori ad accompagnare l’autore alla scoperta di un luogo esotico e al contempo familiare. La sua madeleine, come conferma anche alla presentazione, è una composizione per pianoforte, “I giardini di Buitenzorg” per l’appunto, ma le interferenze della memoria sono molteplici, e risalgono già al momento in cui Brokken, all’inizio degli anni ‘90, è tornato per la prima volta in un luogo amatissimo dai genitori, che a Giava avevano trascorso gli anni felici della giovinezza.

Mia madre, da giovane, deve aver visto esattamente tutto questo, annusato gli stessi profumi. Ho avuto una strana sensazione, come se stessi entrando in un regno rimasto a lungo sigillato, di cui ora riaprivo il cancello. Sono uscito dal mio tempo per entrare nel suo, e mi sono chiesto se sia davvero possibile ritrovarsi non soltanto in un’altra persona, ma anche in un’altra epoca. (p. 25)

Dopo la morte dei genitori, il figlio minore è ancora in ricerca di loro, soprattutto della madre, Olga. È questo che spinge la zia a inviargli la raccolta delle lettere e gli album di foto dei tempi da loro trascorsi nelle Indie Orientali. Si tratta di materiali «di una sincerità rara» (p. 38), che hanno quindi una funzione rivelatrice:

“Tu”, mi disse, “sei ancora alla ricerca di tua madre.” E aggiunse quasi bruscamente: “E non hai ancora scoperto chi fosse davvero.” (p. 39)

La donna che Brokken scopre attraverso le lettere non ha molto in comune con la moglie del pastore che lui ha conosciuto nella loro vita comune nei Paesi Bassi. È, piuttosto, una giovane vivace, indiscreta, dominata da un’inesauribile brama di vita, che lui per la prima volta può sentire, anche nel momento della massima distanza, più vicina.

I giardini di Buitenzorg, che danno il nome alla suite di Godovskij, rappresentano anche il punto di giunzione tra le due linee di sviluppo della narrazione: da un lato la storia di famiglia, dall’altro quella di un’altra “anima baltica”, lo stesso compositore, noto per i suoi interventi che riprendevano e rielaboravano, rendendoli ancora più complessi, brani già elaborati. Personaggio stravagante, che del virtuoso aveva il talento senza averne la facies, appassionato viaggiatore, sempre sottilmente a disagio di fronte alle folle, Godovskij arriva a Giava e ne rimane conquistato. Le sonorità del gamelan, delle percussioni giavanesi, traducono per lui (e in lui) il mistero dell’isola, suscitano un entusiasmo che si traduce nell‘aggettivazione sovrabbondante della sua stessa descrizione:

“La sonorità del gamelan è così particolare, spettrale, fantastica e magica, la musica autoctona così inafferrabile, vaga, scintillante e unica che ascoltando questo nuovo mondo sonoro ho smarrito il senso della realtà e mi sono immaginato un regno incantato” (p. 65).

Ogni brano della sua Java Suite è accompagnato da «un breve quadro», «per mettere l’esecutore nello spirito giusto» (p. 113), e ancora una volta le percezioni sensoriali si mescolano e si sovrappongono, perché quelle visive e olfattive diventano elemento fondamentale per integrare quelle sonore. L’obiettivo è ambizioso, ma il trasporto di Brokken nella restituzione ne dimostra l’efficacia: «l’autore vuole soprattutto che risuoni come un’impressione di viaggio, un particolare stato d’animo che trasporta e inebria l’ascoltatore» (p. 114). 




Una storia, tante storie

Oltre al pianoforte, anche la curiositas, intesa come slancio verso il mondo e attenzione alle diverse sfaccettature dell’umano, è un elemento che accomuna Leopol’d Godovskij e Olga. È attraverso gli occhi di quest’ultima, attraverso le parole delle sue lettere restituite, che il lettore ha accesso alla meraviglia e la grazia dell’Oriente, ai panorami selvaggi e rigeneranti, a una cultura esotica e diversa. Per Olga, come per Brokken, scrivere è un modo per raccogliere le idee e fare ordine, «tirare fuori dei faldoni di immagini e impressioni da quel meraviglioso archivio che portiamo nella testa» (p. 93). Per lei, però, è anche un segnatempo, un legame non reciso con la terra delle origini, dove la sorella Nora accoglie i suoi racconti e li custodisce. Questo legame è il primo, quello fondante, su cui si innestano tutti gli altri.

La storia di Olga e Han, infatti, interseca quella di molti altri uomini e donne, e non tutti del loro tempo: gli studi di Olga la conducono infatti a sondare la figura del mistico Sheick Yusuf proprio mentre Han cerca di svelare l’enigma di una nuova guida religiosa dell’isola di Saleier, il carismatico e misterioso La Galiti; l’indagine sulla realtà delle isole indonesiane porta a esplorare tanto il tempo lungo del colonialismo olandese, quanto poi gli anni della seconda guerra mondiale, che i genitori di Brokken trascorrono, insieme ai loro due bambini ancora piccoli, in due diversi campi di prigionia giapponese. Non è facile, per Han e per Olga, osservare i danni portati dal nazionalismo crescente, l’ostilità improvvisa e inaspettata durante la guerra, i sassi lanciati su donne e bambini durante la deportazione. Non è facile neanche per l’autore continuare a rimestare nel passato, tanto da avvertire a tratti il bisogno di mettere un limite, una distanza tra la storia indonesiana dei suoi e la propria:

Un pensiero mi era arrivato all’improvviso: non tornare più, per smettere di immergermi nei ricordi dei miei genitori e dei miei fratelli. Le Indie erano la loro storia, il loro passato, il loro sogno finito in un incubo, il loro personalissimo trauma. Volevo andare alla ricerca di pagine vuote da poter riempire con le mie esperienze, le mie consapevolezze e i miei errori, anziché guardare da fuori una casa in cui non avevo mai vissuto. (p. 193)

Eppure le rivelazioni avute, soprattutto sul personaggio di Olga, rappresentano uno spartiacque tra un prima e un dopo: anche se la madre è mancata da tempo, non è più possibile ricordarla come la donna asciutta, misurata dei suoi tardivi anni olandesi. Di lei restano il coraggio e la forza, l’anima dirompente, la cultura profondissima costruita attraverso uno studio sistematico, mosso da una solida forza di volontà.


Due ritratti

Nel corso della serata nella Sala Maffeiana, Jan Brokken spende parole toccanti per i genitori.

Le lettere avute da Nora raccontano sì dell’ambiente giavanese, ma anche dell’inizio di un matrimonio. Olga e Han si trovano, giovanissimi, poco più che ventenni, catapultati in una realtà lontana e diversa e, prima di tutto, sono giovani sposi. Brokken si rende conto così Olga ha vissuto ben più di una vita. Nonostante le sue origini e la sua formazione limitata, racconta l’autore, conosceva correntemente tre lingue locali: il malese, il makassar e il buginese. Insegnava alle donne del paese a cucire, e questo le ha dato modo di entrare in contatto con la loro esistenza; loro hanno quindi iniziato a farla partecipare della loro intimità, a invitarla nelle loro case. Questa relazione, mediata da lingua e abitudini condivise, le ha permesso di penetrare al cuore della cultura indonesiana, vasta e antichissima.

Brokken scopre in questo modo che la madre, ben prima di quanto avrebbe fatto lui anni dopo, ha sempre mantenuto uno sguardo aperto verso il diverso, cercando di comprenderlo in profondità. Le isole indonesiane sono terre di musica e di misticismo, per poterne intuire l’essenza è necessario uscire dalla prospettiva consueta, operare un decentramento dello sguardo. 

Una cosa è certa: qui la vita intera è permeata di mitologia e religione. Noi occidentali vogliamo capire tutto perché vogliamo poter spiegare tutto fino in fondo. Un makassar o un buginese non ha bisogno di penetrare fino al nocciolo del mistero. Lui l’accetta, come nebbia che non diventa più sottile e tanto meno si dissolve. E non si sottrae a quella nebbia, piuttosto se ne fa assorbire. (p. 150)

«Anche io cerco di fare questo con le mie opere,» osserva, «aprire delle porte alla conoscenza reciproca». Riluttante a ogni teoria astratta, Brokken ha sempre aspirato a instaurare un contatto intimo e veritiero con i luoghi che esplora attraverso la letteratura, seguendo, in maniera inizialmente inconsapevole, le orme di sua madre.

E il padre?, chiede la moderatrice Gaia Guarienti. Il padre, destinato a diventare un contabile, aveva trovato la sua strada per caso: sentendo, una volta, una sinfonia di Bach filtrare attraverso le porte di una chiesa, aveva scoperto per la prima volta la spiritualità. Questo aveva innescato in lui, cresciuto in un contesto di ateismo, una conversione. «La fede per lui fu sempre una scelta libera, continuamente rinnovata», spiega Brokken. Da quel momento iniziò a studiare teologia, e si avvicinò al mondo calvinista. Il suo incontro con la realtà giavanese è anche per lui illuminante: lo aiuta a uscire da una prospettiva eurocentrica, fino ad allora dominante. La sua esperienza di folgorazione, ispirata da Bach, è peraltro il punto di connessione con la seconda parte della serata, e con il concerto di Bahrami.

Quando Guarienti gli chiede del dolore che si annida dietro il Paradiso tropicale in cui i suoi genitori hanno vissuto, Brokken rievoca l’esperienza dei campi di concentramento giapponesi, in cui Han e Olga, con i due figli piccoli, hanno trascorso più di tre anni e mezzo, separati e costretti ai lavori forzati. Brokken confessa di aver chiesto poco su questo argomento ai genitori, finché erano in vita; forse ha capito davvero l’esperienza da loro vissuta quando ha scritto della prigionia di Dostoevskij ne Il giardino dei cosacchi. A posteriori si rende conto che avrebbe voluto saperne di più, forse avrebbe avuto una visione più comprensiva rispetto a loro, avrebbe capito meglio certi loro comportamenti, sarebbe stato più paziente. Il libro diventa allora anche un modo per chiedere perdono per questa sua incomprensione.


Uno sguardo su un altrove

La suite di Giava è un’opera erudita, ma allo stesso tempo accogliente anche nei confronti del lettore inesperto, che accompagna per mano alla scoperta della cultura e dei paesaggi indonesiani. La dimensione intima e privata risuona in una dimensione più ampia, in cui i destini individuali incontrano quelli collettivi. E così, anche i sentimenti negativi si stemperano, la gioia e il dolore si compenetrano, il passato proietta sul presente le sue luci e le sue ombre, lasciando comunque e sempre spazio a una intensa, commovente e quasi sacra, forma di vitalità. 

Ritornarono la bellezza, l’avventura, lo straordinario. Sembrava che ai tropici tutto accadesse più in fretta, che gli estremi fossero infinitamente più distanti. La tristezza era il dolore più profondo, o la paura peggiore, la paura di morire; la gioia era un’euforia di profumi e colori e nuove impressioni, una più straordinaria dell’altra; la gioia era quasi subito amore. (p. 153)

Carolina Pernigo