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Storie di resistenza e di coraggio: "Donna vita libertà", un volume a più voci curato da Marjane Satrapi

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Donna vita libertà

a cura di Marjane Satrapi 

Rizzoli Lizard, 2023

Traduzione di Lara Pollero

pp. 272

€ 25.00 (cartaceo)

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“Donna Vita Libertà” è uno slogan nato in Siria, utilizzato prima dal PKK curdo, e poi dai battaglioni di autodifesa femminile del Rojava, un «laboratorio di democrazia diretta, […] che stabilisce il principio di uguaglianza, senza distinzione di razza, religione o sesso» (p. 28). Ripreso nel 2022 nel contesto delle manifestazioni che hanno infiammato l’Iran dopo l’insensata morte di una giovane donna colpevole di aver indossato il velo in modo non conforme al regime, questo motto diventa ora il titolo di un volume prezioso e necessario. Quella edita in Italia da Rizzoli è un’opera collettanea, intimamente vissuta da tutti coloro che hanno scelto di farne parte, selezionati dalla curatrice Marjane Satrapi (già nota per il suo meraviglioso Persepolis, di cui abbiamo scritto qui) in base alla loro vicinanza o conoscenza della realtà iraniana. Il politologo Farid Vahid, il reporter Jean-Pierre Perrin e lo storico Abbas Milani affiancano i diciassette illustratori che hanno accettato di prestare la propria arte a tradurre in immagini i contenuti testuali redatti dagli esperti. L’insieme delle diverse voci, degli stili grafici, delle scelte espressive, compone quindi un affresco variegato e potentissimo, in cui ogni sensibilità si può trovare rappresentata.

La prima sezione del volume è dedicata ai fatti: dall’assassinio di Mahsa Amini al dilagare in tutto il paese di movimenti di rivolta, che hanno coinvolto soprattutto i giovani, da un lato ragazze e studentesse, dall’altro uomini che comprendono che «se le donne non sono libere e con pari diritti, la libertà e la democrazia non possono essere parte della società» (p. 15). La trattazione è poliforme e apre continui varchi, finalizzati a mostrare la complessità di un fenomeno che ha radici profonde e diverse manifestazioni. Se da un lato Shabnam Adiban illustra con immagini liriche il testo della canzone Barâyeh, inno e simbolo della sollevazione popolare, dall’altro Mana Neyestani mostra la violenza che si consuma quotidianamente nella prigione di Evin ai danni dei prigionieri politici, ma anche la forza e la resistenza con cui questi continuano a opporsi, mossi dal ricordo di chi li ha preceduti; o ancora le tecniche di censura, controllo sociale e manipolazione delle informazioni che le autorità utilizzano per tenere sotto controllo la popolazione. Winshluss racconta, in una doppia tavola dove gli inchiostri neri e rossi saturano lo spazio restituendo immediata l’impressione dell’orrore, il venerdì nero di Zahedan, mentre con un disegno più fumettistico, quasi antifrastico rispetto ai contenuti, Bee rievoca il dramma delle studentesse avvelenate negli ultimi mesi.

Nella seconda sezione si esplorano le radici storiche che hanno condotto alla Repubblica Islamica: dalla Rivoluzione di Khomeini, inizialmente supportata dagli Stati europei, ai diversi organi che sono oggi responsabili del controllo, come il corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, il Consiglio supremo di sicurezza nazionale, la polizia morale; ampio spazio viene dato a una riflessione sulla dissolutezza delle élite di potere, sulle contraddizioni tra le regole che impongono e lo stile di vita dei loro stessi figli, gli Aghâ Zadeh, rampolli viziati e «maestri dell’ipocrisia» (p. 146), «simbolo definitivo della corruzione e dell’ingiustizia» (p. 141). Toccante è “Il dialogo dei morti”, in cui Paco Roca mette a confronto le ragioni dei “martiri” del regime («I martiri sono la torcia che illumina l’Islam», o ancora «I nostri giovani sono destinati al martirio e all’eroismo», proclama negli anni la Guida suprema) con gli ideali di vita di chi oggi resiste e muore in difesa della libertà:

“Io mi sentivo iraniano fino alla punta delle dita e amavo profondamente la vita.”

“Ma tu non hai perso la vita per difendere un ideale come noi.”
“Sì, ma a malincuore, e la differenza è che sono morto per difendere la vita, perché gli altri potessero approfittare della libertà di decidere della loro.” (p. 163)

I Guardiani della rivoluzione, con gli occhi iniettati e le mani sporche di sangue, «come si evince dal nome non sono incaricati di difendere l’Iran, ma […] il regime iraniano, a ogni costo. […] Rappresentano la violenza, il fanatismo e la corruzione del nostro Paese» (p. 137), spiega Marjane Satrapi in “Temuti e odiati”. A loro, alle forze becere e stantie di chi vuole tenere l’Iran di un passatismo che gli va stretto, vengono contrapposte le voci dei molti che si sono opposti, delle ragazze che hanno tolto e bruciato il velo, delle giornaliste che hanno denunciato i crimini, delle madri e sorelle e zie che hanno pianto cari strappati loro a forza, degli uomini, spesso giovanissimi, che hanno rivendicato una libertà negata. In più pagine del volume i loro nomi sono fatti, ripetuti, celebrati. I loro volti sono tratteggiati perché diventino pietra d’inciampo, tassello di una memoria da custodire («Nika jan, ti hanno ucciso una prima volta, poi una seconda impedendo che ti fosse reso omaggio… Non lo dimenticheremo mai! Non perdoneremo mai!», p. 173). In alcuni interventi, come quello Touka Neyestani, “L’inverno delle esecuzioni”, sotto ai ritratti degli ultimi caduti per mano della Repubblica Islamica, la Guida Suprema Khamenei viene mostrata mentre avanza, fino a sprofondare e a essere ricoperta dal bagno di sangue delle vittime innocenti.

La terza e ultima sezione si incentra soprattutto sul presente, sulle forme in cui la resistenza oggi dilaga attraverso la popolazione, all’interno del Paese ma anche all’estero, e assume forme sempre nuove e diverse, coinvolgendo anche ambiti collaterali, come quello sportivo, o entrando a gamba tesa in quello religioso, che il regime sfrutta come proprio vessillo in un Iran che non è mai stato meno credente di ora. Smontare gli stereotipi, rivelare le tensioni che agitano una superficie sempre meno calma, gridare a gran voce per denunciare l’assenza di libertà che nel resto del mondo sono date per scontate, è un modo per portare attenzione alla causa, darle linfa, farla durare.

Vivere da sola, nubile, non dipendere da un uomo, fare jogging, truccarsi, mettersi lo smalto sulle unghie, avere un piercing, dei tatuaggi, indossare il velo lasciando vedere i capelli, o non portarlo affatto, indossare abiti colorati, mettere dei leggings o una giacca originale, guidare uno scooter o una moto, lavorare, essere indipendente, suonare, cantare, fumare, bere alcol, flirtare, viaggiare sola, non avere figli, andare a letto con un uomo o con una donna… Essere libera!
Tutti questi piccoli gesti, alcuni proibiti e severamente puniti dalla legge, non sono banali. Come recita un famoso proverbio persiano: “tante gocce fanno il mare”.

L’arte della rivolta è una lotta quotidiana. (p. 205)

Quella di Donna vita libertà è una lettura che non può lasciare indifferenti, che prende alla gola, allo stomaco, e tocca diverse corde intime e vitali. Se ne esce con l’impressione di aver imparato qualcosa, ma anche con un senso di urgenza rispetto all’idea che ci sia da fare qualcosa, che il movimento trascinante, coraggioso, degli uomini e delle donne iraniane che vogliono cambiare il loro paese sia qualcosa di giusto e sacro.

 Carolina Pernigo