in

Relazioni familiari e ricerca dell’identità: “Una vera americana” di Rachel Khong

- -

 

Una vera americana 
di Rachel Khong 
NN editore, maggio 2025 

Traduzione di Clara Nubile 

pp. 496 
€ 20,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook) 

In Una vera americana (che leggiamo nella raffinata traduzione di Clara Nubile), Rachel Khong affronta il tema sempre complesso dell’identità, declinandolo secondo una molteplicità di sfaccettature, tutte strettamente collegate e intrecciate le une alle altre. 

L’identità viene intesa innanzi tutto in quanto provenienza da un certo tipo di “mondo” e come appartenenza, più o meno accettata, a una specifica cultura; quindi, in termini scientifici, come patrimonio genetico unico e irripetibile della singola persona; infine, in senso psicologico, come consapevolezza di sé, anche in relazione all’altro e ai membri della propria famiglia. 

Proprio la famiglia, nel bene e nel male, si configura come un pilastro della complessa architettura di questo romanzo, ambientato tra la metà degli anni ‘60 e i giorni nostri; tra la Cina e, prevalentemente, gli Stati Uniti. 

Protagonisti ne sono infatti Lily, sua madre May e suo figlio Nick: tre generazioni a confronto e in contrasto, secondo uno schema ricorrente (uno dei tanti di quest'opera), per cui le madri tendono a compiere scelte importanti in nome dei figli, provocandone, così, presto o tardi, l’allontanamento. 

May (cui è affidata nella sua quasi interezza l’ultima delle tre parti in cui il libro si divide) è una genetista cinese che, appena conclusa l’università, per non soccombere all’oppressione del regime maoista, fugge senza rimpianti dal proprio paese e approda negli Stati Uniti, nel tentativo di realizzare il sogno americano: 

Mi consideravo una pianta di loto che cresceva dal fango più sporco, ma al sole sbocciava, incontaminata dalla melma da cui si era originata. Non mi vergognavo di com’ero cresciuta, ma volevo progredire, allontanarmi dal passato. Per me fu facile non guardarmi mai indietro. (p. 360) 

Ma l’ebbrezza (o forse l’illusione) della libertà, unita al desiderio di rivalsa e all’ambizione sfrenata, è tale da spingerla a pensare di poter letteralmente manipolare il futuro: un’idea irrealizzabile, destinata a un inevitabile fallimento.

May, tra l’altro, pianifica rigorosamente anche l’educazione di Lily, in modo da tenerla lontana dalla tradizione culturale e linguistica cinese: la bambina deve crescere come ‘una vera americana’. 

Eppure, nonostante gli sforzi materni, nel confronto con i coetanei, complice anche l’aspetto fisico, che tradisce le origini asiatiche, la giovane Lily si percepisce diversa e, in parte, incompleta. Ne deriva una sensazione di disagio, che la accompagna costantemente durante la sua vita post universitaria nella città di New York:

Anche se mi avevano cresciuta così americana, non ero mai riuscita ad avere quel genere di relazioni americane che i miei amici avevano con i genitori, a cui parlare come fossero amici. (p. 99)

Tale disagio emerge con forza nel momento in cui (siamo nelle primissime pagine del romanzo) Lily incontra Matthew: alto, bello, biondo, muscoloso e ‘americanissimo’, del tutto diverso rispetto a lei («io, con i miei capelli neri, l’altezza media e un viso che non era bello», p. 83): 

Nella nostra immagine riflessa, vedevo un uomo totalmente americano con una donna straniera, nonostante anch’io fossi totalmente americana. (p. 83) 

La distanza tra i due si misura anche in termini economici: Matthew è ricchissimo e per questo privilegiato, mentre Lily vive ai limiti del decoro. 
La disponibilità o meno di denaro costituisce in effetti un altro dei temi ricorrenti dell’intreccio, tale da determinare  più volte il cambiamento del tenore di vita dei personaggi principali. 

Come quello di Matthew con il padre, così il rapporto di Lily con la madre è conflittuale: May è una donna fredda, che non sa manifestare affetto, poiché, per ragioni culturali, non è stata abituata a dire e a sentirsi dire “ti voglio bene”. Queste parole, pronunciate raramente nei confronti della figlia, su di lei suonano sempre innaturali: 

Pur con il suo perfetto accento americano, mia madre non riusciva a dirlo con naturalezza. ‘Ti voglio bene’ restava un’espressione straniera. (p. 55) 

Inoltre, laddove May dedica l’intera esistenza agli studi da genetista (per il nipote, lei è «la scienziata matta», p. 330), Lily è ben cosciente di non provare interessi particolari né particolari ambizioni lavorative e di essere quindi una delusione agli occhi della madre. 

Il matrimonio con Matthew e soprattutto la nascita di Nick sembrano attribuire un valore aggiunto alla sua esistenza. Si tratta, in realtà, di un’(altra) illusione: nonostante i buoni propositi («Il nostro matrimonio sarebbe stato diverso», p. 128; «avremmo cresciuto nostro figlio in modo diverso da come eravamo cresciuti noi», p. 131), la coppia non regge alla rivelazione di alcuni segreti appartenenti al passato.  All’inizio della seconda parte, veniamo a sapere che l'unione è fallita. 

È proprio tra queste pagine, raccontate da Nick, che esplode la più forte crisi di identità, in tutti i sensi sopra indicati: ai turbamenti naturali dell’adolescenza, si aggiungono problematiche più personali e specifiche. Prima di tutto, l’impressionante somiglianza fisica con il padre, e non con la madre, lo spiazza: 

Perché non sembravo cinese? Avevo i capelli biondi e gli occhi azzurri e non somigliavo affatto a mia madre (p. 168) 

Il ragazzo si riferisce a se stesso come a «un bizzarro incidente genetico» (p. 168), a «uno scherzo della natura» (p. 275). 

Inoltre, Lily gli impedisce non solo di avere contatti, ma addirittura di conoscere il nome di questo fantomatico genitore, che, al contrario, lui vorrebbe quanto meno incontrare: 

Non avrei potuto chiedere una madre migliore, eppure chiedevo […] anche un padre (p. 196) 

Nei confronti di quest’ultimo, poi, prova rabbia e risentimento perché Matthew («quello sconosciuto», p. 171) non lo ha mai cercato, ignorandone di fatto l’esistenza. 

Infine, Nick si sente soffocato dall’affetto materno. Lily, che evidentemente vuole essere una madre del tutto diversa dalla propria (al punto che da adulta recupera persino lo studio del cinese), lo ha cresciuto in una bolla, in una famiglia di due soli ed esclusivi componenti («Eravamo sempre stati solo noi due», p. 169), precipitandolo in un circolo vizioso di oppressione, solitudine, tradimento della fiducia, sensi di colpa. 

Così, sebbene per ragioni diverse, anche Nick si ritrova a incarnare il tipo del giovane in fuga, così come era stato per May e Lily prima di lui. 

Particolarmente efficace ai fini del coinvolgimento del lettore risulta la struttura del testo, all’interno del quale i punti di vista dei tre personaggi principali si giustappongono, in un gioco sapiente di sfasature temporali, flashback, omissioni volute e momenti di suspense. Oltre a mantenere costante il livello di attenzione durante lo svolgimento dei fatti, anche in alcuni punti in cui il ritmo narrativo pare rallentare, questa organizzazione testuale permette di apprezzare il malinconico, ma tutto sommato ottimistico finale, che sembra voler chiudere su se stesso il cerchio delle vite dei protagonisti.

Elide Stagnetti