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«La necessità della violenza»: i mille piani (di lettura) di "Babel" di R. F. Kuang

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Babel
di R. F. Kuang
Oscar Vault (Mondadori), 2023

Traduzione di Giovanna Scocchera

pp. 600
€ 24 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Con un libro come questo, letteralmente preceduto dalla sua fama, è importante partire da una presa di posizione ben precisa: non sono un amante dei libri fantasy, e anzi sono la lettrice più lontana dalle grandi saghe di genere. Sì, perché se state leggendo questa recensione, probabilmente siete stati incuriositi dall’enorme tam tam che Babel ha provocato su qualsiasi piattaforma, dalle classifiche letterarie statunitensi e dal mondo dei premi letterari, fino ad arrivare anche al BookTok nostrano, dove il libro è stato osannato dalle e dai bloggers come “un capolavoro del genere dark academia”. Ecco, io, che fino all’altroieri pensavo che il dark academia fosse solamente uno stile di vestiario, mi sono lanciata a capofitto nella lettura per tutt’altri motivi. Incuriosita dalla bellissima veste grafica (Oscar Vault è una garanzia, dopotutto), dalla giovanissima età dell’autrice, già famosa per una precedente trilogia, e soprattutto dal tema della traduzione. Non avevo idea che fosse un libro fantasy. Eppure l’ho amato. E parlare di Babel come un libro di genere, di stile, di ambientazione, sarebbe estremamente riduttivo. Forse è riduttivo anche parlarne come di un libro fantasy: perché il fantastico in questo libro è ridotto all’osso. E questa è proprio la sua forza. 

E la trama, questo, ce lo dimostra chiaramente. Il libro, ambientato negli anni Trenta dell’Ottocento, racconta la storia di Robin Swift, un ragazzo originario di Canton che viene portato in giovanissima età in Inghilterra da chi diventerà poi suo tutore, il professor Lovell, docente di mandarino presso Babel, cioè l’istituto di traduzioni dell’università di Oxford. Robin viene cresciuto per seguire le sue orme, e dopo anni di studio delle lingue approda finalmente a Babel, dove in realtà la letteratura, l’interpretariato, la traduzione di documenti sono attività che fanno da contorno al vero motivo per cui la traduzione è considerata la risorsa più importante dell’impero: la lavorazione dell’argento, una pratica che prevede l’incisione di parole tradotte da una lingua all’altra sui due lati di tavolette d’argento, poiché la necessaria perdita di una parte di significato che avviene con la traduzione di qualsiasi concetto, in combinazione con le capacità mercuriali dell’argento, dà origine a fenomeni di magia. Con la lavorazione dell’argento, l’Inghilterra ha a disposizione carrozze più sicure, macchinari più produttivi, navi più veloci. E eserciti più forti. 

Ecco dunque che l’argento, che arriva in quantità smodate nelle casse dell’Impero direttamente dalle colonie oltremare, è una risorsa fondamentale quanto Robin stesso, che, con la sua conoscenza del cinese, può maneggiarlo con effetti incredibili. E più le lingue sono lontane dall’inglese, più la lavorazione dell’argento è efficace. Robin, dalla Cina; Ramy, dall’India; Victoire, da Haiti; gli studenti e le studentesse di Babel sono prodotti coloniali, risorse dell’Impero, capitale da sfruttare affinché i loro Paesi natali siano sempre più oppressi e sottomessi al potere inglese. 

Questa, dunque, è la maestria del romanzo. L’intento dell’autrice è quello di narrare una verità storica e geografica incredibilmente reale, in cui l’elemento della magia si inserisce come una piccola aggiunta, un accento in una frase, più che un vero e proprio tema. C’è perfino una prefazione in cui R. F. Kuang ci tiene a specificare che quella del libro è la vera Oxford, dove lei stessa ha studiato, e che ha semplicemente modificato per far spazio alla torre che ospita Babel, spostando lievemente gli edifici che lo circondano – spostando, dunque, e non modificando istituzioni realmente esistenti. E affette da incredibili problemi di cecità nei confronti degli impieghi politici ed economici della conoscenza che ospitano, creano e promulgano. 

Per non parlare della presenza pervasiva di testi letterari e personalità storiche reali, ciascuna portatrice della propria visione miope e oppressiva nei confronti delle vittime dell’Impero e della politica internazionale del colonialismo; la guerra dell’oppio non viene reinterpretata da una lente fantasy, ma anzi appare distillata nelle sue componenti più crudamente reali dagli occhi di Robin, che vivrà sulla sua pelle cosa significa diventare merce, essere protagonista della Storia senza poter davvero incidervi. O forse no. Perché il geniale sottotitolo del romanzo in lingua originale, “The necessity of violence”, andato purtroppo perso nell’edizione italiana, sussume in sé le riflessioni più importanti del romanzo: la presa di coscienza di Robin di cosa significa davvero mettersi di traverso nel corso degli eventi, dell’opposizione inconciliabile tra personale e pubblico, della propria storia personale e della Storia che invece calpesta le singole esistenze in favore delle assai più pulite ideologie. Robin è un personaggio difficilissimo da dimenticare, tutt’altro che eroico. Vittima di un sistema che non lascia spazio alle singole esistenze, tanto nell’acquiescenza quanto nella riscoperta della volontà di opporsi al colonialismo, Robin dovrà imparare una realtà tanto innegabile quanto dolorosa: tradursi significa necessariamente tradirsi. Sempre.

Marta Olivi