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Corpi, traumi e cicatrici: da “Le divoratrici” a “La crociera”, i due romanzi complementari di Lara Williams

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Le divoratrici
di Lara Williams 
Blackie, gennaio 2021

Traduzione di Dafne Calgaro e Marina Calvaresi

pp. 325 
€18,90 (cartaceo)

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La crociera
di Lara Williams
Blackie, giugno 2023

Traduzione di Dafne Calgaro e Marina Calvaresi

pp. 200
€ 18,90 (cartaceo)


Lo ricordo benissimo: era il 2019, stavo scegliendo il tema della mia tesi di laurea magistrale, e facendo ricerche sulle ultime uscite che avessero scosso il panorama della letteratura contemporanea femminista di lingua inglese, continuavo a incappare in Supper Club di Lara Williams. Quell’anno vinse il Not the Booker Prize del «The Guardian», un contraltare dal nome palesemente ironico ai più blasonati premi letterari: ed era chiaro fin dall’inizio che ai premi di quel tipo Lara Williams non puntava proprio. Supper Club veniva descritto come un Fight Club femminista, descrizione che – ah, la mia ingenuità! – mi fece pensare a qualcosa di empowering, qualcosa di simile a quel femminismo neoliberale un po’ glitterato e un po’ sporco che si fa passare per un femminismo universale, ce n’è per tutti, prego, leggi questo libro e ci sarà spazio anche per te. Lo comprai in versione digitale per poterlo leggere anche in Italia, e scoprii subito che il libro aveva ben poco di Fight Club, ma, in effetti, aveva molto di Chuck Palahniuk. Perché era pieno di corpi, e parlava del trauma di essere umani – anzi, più specificatamente, di essere donne – e di avere un corpo tanto vulnerabile quanto quello che c’è sotto. Trauma, dal greco, “trafittura, perforamento”: un corpo che cede il suo status di frontiera invalicabile e che si buca, rivelando a tutti la mollezza dei tessuti interni, del proprio cuore, del proprio stomaco.

La protagonista di Le divoratrici – titolo dell’edizione italiana uscita per Blackie nel 2021 e ormai inseparabile dall’identità della casa editrice – si chiama Roberta. In un andirivieni tra passato e presente, la vediamo annoiarsi nel suo lavoro senza senso, stringere una forte amicizia con la sua collega Stevie, fondare un club di donne unite dalla cicatrice di una paura, e organizzare feste in cui l’incredibile talento culinario di Roberta si sfoga nel creare banchetti che le donne divorano senza freni, abbandonandosi ad alcol, droghe e musica fino alla mattina del giorno dopo. Detto così, sembra davvero divertente, empowering, glitterato e un po’ sporco… giusto?

Poi, una notte, passando di fianco a una trattoria italiana vicino casa, un ristorante quasi sempre deserto, aveva visto un gruppo di donne che, vestite di colori fluo, ballavano come pazze e mangiavano con le mani. […] Si era rivista da sola, mentre si trascinava nel mondo alla ricerca di conforto, senza mai rivolgere un pensiero alla gioia. Era proprio quello ad averla colpita mentre guardava il Supper Club dall’esterno: la gioia. Sembrava una cosa da prendere in considerazione. (p. 122).

L’illusione regge finché regge il piano ordito dall’autrice, quello di farci calare nella vita di Roberta come se fossimo delle persone capitate lì per caso; dopodiché, lentissimo, e con una totale, devastante assenza di qualsiasi pathos, si alza il velo di polvere che copre il passato di Roberta, una prima giovinezza piena di traumi. E quel corpo che abbiamo visto ingrassare tra un Supper Club e l’altro si rivela coperto da un groviglio di cicatrici: un campo di battaglia – testimone di una guerra persa.

Eppure è qui che emerge la genialità dell’autrice: mentre la protagonista si distacca dallo status di donna qualunque, arrotondandosi e definendosi nel continuo passaggio tra passato e presente, non assurge mai allo status di eroina. Roberta rimane un’everywoman, una persona qualsiasi, una donna come ne sono piene le strade, gli uffici, i negozi che frequentiamo ogni giorno. Perché se c’è qualcosa che è tutto tranne che straordinario, questo è il trauma. L’aver dovuto sostenere il colpo di qualcosa che all’improvviso si è abbattuto su di noi lasciando quelle cicatrici a cui siamo così abituate che forse non le notiamo nemmeno più. Ecco allora che mangiare fino a star male, bere, ballare e stordirsi è uno dei tanti modi di riappropriarsi di un corpo traumatizzato e imporci sopra il proprio agire, cercando la gioia e la liberazione in un contesto esterno che si fa sempre più claustrofobico man mano che ci caliamo dentro la prospettiva della protagonista. Una claustrofobia tanto più opprimente perché normalissima, perché ce la siamo sentita attorno anche noi.

"Terminato il caffè, mi chiedeva che cosa avevo voglia di fare, regalandomi l’illusione di avere carta bianca. Manco a dirlo, era tutto fuorché bianca, ma fittamente tappezzata di inchiostro invisibile. Solo che io non ero tenuta a saperlo." (187)

Se il primo libro di Lara Williams si gioca tutto sulla linea di confine sottilissima tra il doloroso e il fisiologico, spalancando l’abisso che si cela sotto ogni esistenza “normale”, il suo secondo libro, uscito a maggio 2023 per Blackie, ci prende in contropiede sotto tutti i punti di vista. Perché la protagonista di La crociera, Ingrid, ci sembra tutto tranne che una donna normale.

Mi sedetti. Chissà se stavo davvero facendo qualcosa di insolito. Forse era normale, niente di che, piombare li senza preavviso. Uno dei tanti privilegi del programma. Osservai l'espressione di Keith, quella di un uomo che cerca di far quadrare le cose disparate che sa di una persona. Un'espressione che avevo visto sul volto di mio marito innumerevoli volte. Avrei quasi preferito che Keith mi guardasse con la neutralità annoiata che aveva assunto mio marito quand'era finalmente giunto alla quadratura. L'espressione attuale mi rendeva nervosa. (p. 97)

È una donna che ha scelto di vivere lavorando in una stranissima nave da crociera; del suo passato intuiamo solo un matrimonio naufragato. Non sembra avere grandi emozioni né sentimenti, è completamente parte del formicaio di cui tutti i lavoratori sulla nave fanno parte. Mansioni che cambiano secondo un algoritmo inconoscibile, turni che si alternano a caso senza seguire il ritmo circadiano, l’asfissia degli spazi chiusi e dell’omogeneità dei vestiti bianchi dell’uniforme: la surrealtà del libro procede implacabile, mentre il suo lento disvelarsi attanaglia il lettore come faceva l’atroce normalità di Roberta in Le divoratrici. Tra terra e mare, anche la vita di Ingrid procede in modo meccanico: un corpo biologico, che procede nelle sue funzioni. Anche qui, però, arriva implacabile il marchio del trauma. Nelle pagine finali, un romanzo che ci era sempre sembrato surreale affonda nella ferocia della vita vera, e recuperiamo il contatto con quella normalità che caratterizzava il primo libro dell’autrice; ma solo per perderlo poi subito dopo, quando capiamo che, alla fine, non c’è poi così tanta differenza nella vita di Ingrid prima e dopo l’essersi imbarcata sulla nave. Anche Ingrid non è un’eroina, che si risolleva dal suo passato per giungere a una felicità liberatoria. La realtà e la surrealtà si mescolano grazie all’assenza di senso, che se in Le divoratrici poteva sembrare la via d’uscita da una vita segnata dal trauma, qua invece si trasforma in un nichilismo cosmico che lascia ogni volizione fuori dallo spazio delle pagine.

Insomma, si è capito: i libri di Lara Williams non sono libri che riempiono il cuore di positività. Allo stesso tempo, però, sapersi riconoscere in queste protagoniste martoriate può essere un sollievo. Non c’è nessuna narrativa eroica tesa a una felicità promessa per chi si comporta bene; le protagoniste dei libri di Williams sono spesso causa dei loro guai, e le vediamo portarsi dietro il loro fardello di sofferenze con un’indifferenza quasi spaventosa. Finché non ci rendiamo conto che la narrativa di Williams, persino quando si spinge nel campo della surrealtà, riesce a essere incredibilmente assai più realistica di moltissime altre penne nel rappresentare cosa significa abitare un corpo vulnerabile e portarselo appresso in un mondo che quasi mai è orientato da un senso superiore. Un realismo difficilissimo da ottenere.

Marta Olivi