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Una storia d'amore, di musica e di fantasmi: "Il violino del pazzo" di Selma Lagerlöf

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Il violino del pazzo
di Selma Lagerlöf
Iperborea, 2023

Traduzione di Andrea Berardini

pp. 142 
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99  (ebook)
 

Due cose ama Gunnar Hede: il suo violino e Munkhyattan, la residenza di famiglia. È dunque con uno strappo al cuore che si rende conto di dover rinunciare al primo per salvare la seconda, destinata a essere venduta in seguito a rovesci economici di cui ignorava l’esistenza. Quando l’amico Ålin glieli rivela, invitandolo a mettere la testa a posto e dedicarsi seriamente agli studi, a completare l’università, a sposare la brava ragazza che gli è promessa, Gunnar capisce di dover sacrificare la sua vocazione, che nel tempo ha assunto la forma di una vera e propria necessità. Il violino è per lui sfogo, libertà, magia. È ciò che mantiene stabile la sua mente, ciò in cui si riversa la sua anima. Il violino gli parla e gli ricorda che può mettere a tacere i suoi demoni, che può sconfiggere la sua cattiva sorte, che se suona tutto è possibile. Per questo lo fa un’ultima volta, aggregandosi a una compagnia di saltimbanchi e facendosi prestare lo strumento da un vecchio suonatore cieco, che si sposta accompagnato dalla nipote, Ingrid, una ragazzina dagli occhi grandi e seri, dal sorriso raro e travolgente. A Gunnar basta posare l’archetto sulle corde perché la melodia trascini lui e chiunque l’ascolti, richiamando ciascuno al proprio destino grazie a una forza sotterranea. La sua adesione alla musica è radicale e ha la forza e il vincolo di un voto nuziale:
Era quella la sua strada, il cammino luminoso che gli si apriva davanti. Disse a se stesso: “Lo voglio, voglio diventare un musicista, devo diventarlo. […] Posso stregare la gente con il mio violino”. (p. 18)
Il prezzo da pagare per l’infrazione del voto, per un’esistenza strappata al suo corso e piegata al compromesso, è però altissimo. Gunnar torna a fare il commesso viaggiatore come suo nonno e salva la tenuta, ma perde tutto il resto, compresa la ragione. Si aggira dunque per i borghi della Dalecarlia, preso in giro da tutti, inquieto e impaurito da tutto ciò che non può controllare. Porta con sé il suo violino, ma non è più lui a suonarlo: è il violino che ricorda le melodie e le riserva a pochi eletti, generando però ogni volta qualcosa di commovente e unico.
Era il violino che parlava e parlava, lui ascoltava soltanto. Era meraviglioso, comunque, che non appena passava l’archetto sulle corde, ne uscisse qualcosa di così bello. Era il violino che si occupava di tutto, sapeva cosa andava fatto, l’uomo si limitava ad ascoltare. Da quel violino spuntavano canzoni come l’erba della terra. Nessuno poteva capire come avvenisse. […] L’uomo avrebbe volentieri trascorso in quel modo l’intera giornata, lasciando che quelle incantevoli note sbocciassero dal violino come piccoli fiori bianchi e colorati. Avrebbe suonato fino a coprire i fiori tutto un prato, tutta una valle lunga, tutta una vasta pianura. (p. 43-44)
La musica, associata al talento, è aria, luce, vita. Il suono del violino del pazzo è talmente portentoso da richiamare, un giorno, alla luce Ingrid che, ormai diciannovenne, è caduta in un torpore tanto profondo da essere confuso con la morte ed è stata sepolta viva. Non è passato, negli ultimi cinque anni, un solo giorno in cui lei non abbia ripensato al bello studente che l’aveva guardata negli occhi, che aveva visto in lei un potenziale d’amore e fedeltà. Non lo riconosce però nel vagabondo che la riporta in superficie, che la carica sulle sue spalle, che la conduce attraverso il bosco. È soltanto nei suoi sogni che lei vede lo studente, ancora giovane, accorrere in suo aiuto. Poco importa che quello spirito che le si manifesta le lanci segnali, le mormori come stanno le cose. Nella realtà, di fronte al venditore ambulante, i suoi occhi sono ancora ciechi, le sue orecchie sorde. Resta semmai qualcos’altro, una semplice attrazione per ciò che è vivo, un senso di riconoscenza profonda, che la spinge verso di lui, ben prima dell’agnizione. E quando questa avverrà, come sempre nelle opere di Lagerlöf, non sarà facile, né gradita: la ragazza dovrà fare i conti con il divario profondo che sussiste tra l’amato che le appare in sogno e il matto che le sta davanti, e la sovrapposizione è progressiva e piena di rabbia e di dolore.
Quella narrata da Selma Lagerlöf è una storia d’amore: senza amore, ci dice la vicenda di Ingrid, l’uomo non può vivere, il cuore non può battere, la virtù non può fiorire. L’uomo senza amore è come un albero a cui hanno reciso le radici, e resta languente ad assistere alla propria fine.
Da quando aveva sentito che non l’amavano, una mano di ferro le si era stretta intorno al cuore e lo serrava forte per costringerlo a smettere di battere. […] Era peggio di una condanna a morte. […] Era come quando si abbatte un albero […] tagliando le radici e lasciandolo a terra finché non muore da sé. E l’albero resta lì, senza capire perché non riceve più nutrimento e linfa. Lotta e combatte per vivere, ma le foglie diventano sempre più piccole, i germogli non spuntano più, e la corteccia raggrinzisce. E l’albero deve morire, perché è stato reciso da ogni fonte di vita. Così è: deve morire. (p. 62)
È anche però una storia di fantasmi, di creature perdute e ritrovate, ambientata in un luogo a tratti misterioso e desolato, in cui il confine tra la vita e la morte, così come quello tra la realtà e il sogno, si fa incerto, permeabile.
C’è qualcosa di incredibilmente toccante in Selma Lagerlöf che va oltre ciò che racconta, e risiede piuttosto nel modo in cui lo fa. Benché la sua prosa abbia un che di antico, e spesso ricerchi le cadenze della fiaba, i suoi personaggi sono sempre a loro modo moderni. Le scelte che compiono, anche se a volte repentine, non sono mai scontate, ma sempre frutto di una precedente interiorizzazione, di uno scavo nel proprio sentire. Il tentativo di Ingrid di salvare Gunnar prevede un rischio di cui la giovane, per quanto ingenua, è subito consapevole. E, nonostante la nobiltà del suo impegno, Lagerlöf non si permette mai di sminuirne il peso:
Quella sera le era venuta una grande angoscia. Temeva che di quel passo avrebbe finito per distruggere il suo amore. Cominciava a dimenticare lo studente per pensare solo al malato. E tutto ciò che c’era di leggero, di bello, di giocoso spariva dal suo sentimento. Non restava che una pesante, grave serietà. (p. 98)
Anche per l’uomo, del resto, non è facile tornare a se stesso, prendendo atto degli anni di vuoto e follia, dei giudizi e la derisione della gente, del proprio stesso abbrutimento. La tentazione forte è quella di risprofondare nell’oblio, là dove non c’è coscienza, e quindi sofferenza. Come in tutte le fiabe che si rispettino, anche in questa ci sono gli antagonisti, come il canonico e la moglie, che per troppo amore e senso del dovere vogliono tenere la figlia adottiva Ingrid legata a sé, e gli aiutanti, i signori Blomgren, amabili circensi, che credono nelle storie e le usano per lenire gli animi feriti. È grazie a questi ultimi, che, pur anziani, accettano di rimettere in scena il passato, che Gunnar può ritrovare il suo violino, e quindi, affidandosi alla sua voce, tutti i frammenti del tempo perduto, e la stessa Ingrid.
In questo racconto lungo, Selma Lagerlöf si rivela ancora una volta sottile indagatrice delle sfumature dell’anima, e narratrice di personaggi con anime belle, in grado di trasportarli oltre, o al di sopra, degli ostacoli che la vita mette loro innanzi.

Carolina Pernigo